«Cos’è il genio?» chiede il Perozzi in Amici miei. «È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione» si risponde.
Il genio, se permettete, è anche 1/3 di gin, 1/3 di bitter Campari, 1/3 di vermouth rosso, una scorza di arancia (o limone) e ghiaccio. Una ricetta elementare che tutti - senza essere grandi barman - sono in grado di replicare. È il Negroni, “la perfezione” all’interno di un bicchiere, tumbler basso, mi raccomando.
Synthetic Spectre è il nome di un collettivo artistico nato nel 2014 da un’idea di Marco Aceti e Omar Genoni, due 20enni della provincia di Varese. Il loro obiettivo è realizzare decorazioni scenografiche-psichedeliche di forte impatto visivo, per rave party ed eventi musicali. Nel 2017 a loro si aggiungono Michele Mina e Gianluca Argentieri: il gruppo è pronto per stupire - positivamente - chiunque entri in contatto con le loro installazioni.
Musica e Vita: è proprio quello che ci serve. Infatti è anche il sottotitolo della prima edizione del Concorso Letterario Arezzo Wave Word Contest promosso dalla organizzazione no profit Fondazione FAWI che promuove la musica indipendente italiana e internazionale attraverso il festival di Arezzo Wave.
Per partecipare occorre inviare entro il 25 aprile 2023 un racconto inedito di massimo 9000 battute, e hai già a disposizione l’incipit «Per lei/lui la musica era tutto, non poteva andare così…».
In quasi tutti gli album di famiglia c’è un’immagine quadrata, incorniciata di bianco, uscita decine di anni fa da una scatola nera, di plastica. Be’, sappiate che queste immagini quadrate, ma soprattutto la scatoletta nera di plastica che le sputava, è stata apprezzata non solo dai noi dilettanti, ma anche da fotografi professionisti, architetti, arredatori, detective. Nel mondo dello spettacolo l’hanno utilizzata truccatori, costumisti e scenografi sui set cinematografici (recentemente l’attrice Sean Young ha postato sul web le polaroid scattate da Ridely Scott durante le riprese di Blade Runner).
Per noi ragazzi del Sessantotto è stata dura, molto dura!
Come state dicendo? La polizia? I fascisti? La rivoluzione? Ma no, ma no, si sta parlando di sentimenti, si sta parlando di ragazze.
Eh sì, provateci voi… provateci voi ad avere sedici anni, la vita che ruggisce nei calzoni, gli ormoni tutti in fermento, un giro di ragazze bellissime, che scoprono la libertà, anche sessuale, che scoprono le minigonne, che scoprono come diventare belle, come essere belle sia fuori che dentro. Una meraviglia, vero? Un accidente! Avrebbe potuto essere bello, se non ci fosse stato lui.
È stato uno dei fumetti più innovativi, sia come tratto grafico, sia come contenuti. E ancora oggi – a settantacinque anni dalla sua prima apparizione – è indiscutibilmente uno dei più amati, letti (e riletti) da un pubblico di tutte le età. I protagonisti sono un gruppo di bambini e un cane, anche se un po’ particolare. Questi sono i personaggi dei Peanuts (in italiano «noccioline»), una saga di fumetti creata dal disegnatore americano Charles M. Schulz; una striscia che ha attraversato tutti i momenti più importanti della storia occidentale, cambiando con il mutare della società, talvolta persino influenzandola.
È il 26 settembre 1975 quando nelle sale americane esce Rocky Horror Picture Show, adattamento cinematografico diretto da Jim Sharman del sorprendente successo teatrale della Londra underground. Basta una settimana di programmazione per capire che il film è un clamoroso flop: le sale sono vuote, si staccano poche decine di biglietti per platee che possono ospitare fino a 600 persone; sui giornali e in tv la critica lo stronca senza pietà, tanto da definirlo «saggio di demenza cinematografica» infarcito di «numeri musicali tutt’altro che divertenti, che oscurano del tutto una vicenda di per sé piuttosto scarna».
Una condanna senza appello. Ma, e questa è la magia del cinema, a un certo punto accade qualcosa di strano.
Sono “di fango” per Indro Montanelli e “della rucola” per Michele Serra, ma per molti gli anni Ottanta sono, e restano, quelli “della Milano da bere”, dell’edonismo esasperato e del disimpegno.
Un periodo che vede i giovani – svuotati, stanchi, reduci da un decennio di sangue e di morti a colpi di spranghe, pistola ed eroina, con una gran voglia di cambiare passo. Il periodo che alcuni liquidano con: «Spararono a John Lennon e iniziò un decennio di merda» è invece complesso, difficile e indecifrabile, vissuto dalla prima generazione post-ideologica. È il decennio della “leggerezza”, in contrapposizione alla “pesantezza” dei Settanta, vissuto in una sorta di deserto culturale dove la sostenibile leggerezza dell’essere è all’ordine del giorno.
Saranno stati anche dei «malati di protagonismo» - come li ha recentemente definiti un politico di oggi - eppure a oggi nessuna generazione ha eguagliato quella degli anni Sessanta, con la sua voglia di prendere la parola e di giudicare il mondo. Quei giovani si sono sentiti profeti e protagonisti di un passaggio straordinario. E il cambiamento non lo hanno letto sui libri o studiato a scuola, perché loro – gli hippie - lo hanno annunciato al mondo. Un movimento giovanile che a metà degli anni Sessanta ha immaginato - e messo in pratica - un rinnovamento radicale della società.
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