I poeti indossano i loro colori

Mario Giusti

Parlare di MilanoPoesia senza citare Gianni Sassi e in poche parole è davvero un’impresa. Il rischio è la mancanza di rispetto per quella genialità che Sassi ha saputo esprimere, in un lasso di tempo troppo breve per le sue capacità. Ciò nondimeno, in una storia seria della cultura e della musica italiana del Novecento, non può mancare questo ricordo. 
The long and winding road. Erano tempi eroici per tutti! Tutto cominciò con una visita di Jean Jacques Lebel, ideatore e animatore del Festival di poesia Poliphonix a Parigi. Era amico di Gianni Sassi che volle presentarmelo e passammo molto tempo a parlare del suo lavoro e di quell’immenso territorio culturale che, in tutto il mondo, era la poesia. Lebel, da agitatore ispirato quale era, aveva infatti appena organizzato a Parigi una manifestazione molto originale che coinvolgeva poeti, musicisti, filmakers del calibro di Nam June Paik, Yoko Ono, Claes Oldemburg. 
Per farla breve decidemmo di organizzare al Teatro di Porta Romana e con un grande aiuto dell’allora sindaco Carlo Tognoli, una rassegna di poesia e “arte varia” e nacque Guerra alla Guerra che per tre giorni, nel dicembre 1982, fu il vero prodromo di quella lunga e bellissima avventura che fu MilanoPoesia.

Il risultato straordinario di pubblico e varia umanità di quell’iniziativa ci convinse di dover proseguire in quell’avventura, perché di questo si trattò per più di dieci anni. Infatti, non ci mettemmo molto e decidemmo di organizzare, anche grazie alle consulenze del poeta Antonio Porta e del regista Lorenzo Vitalone, anche noi un Festival di poesia coinvolgendo inizialmente l’intero gruppo di artisti presenti a Parigi per Polyphonix. 

E da quella strana scrivania-foresta, dove nasceva ogni tipo di carta possibile, buttata, dimenticata, impilata, bozze, disegni, foto, fatture, menabò, appunti, con sopra un enorme lampadario-pallone di carta, dove passava ore ed ore, sempre col cappello nero in testa, Sassi si fece promotore, insieme a MilanoSuono, di un’iniziativa che vide coinvolti «tanti grandi poeti originari di culture e di paesi del mondo intero, scelti solo in ragione della loro qualità intellettuale… che non indossano che i propri colori, non rappresentano né nazioni, né etnie, né partiti né chiese, né tribù, né classi… perché la poesia si situa ben al di là delle appartenenze del cittadino…».  

Ora giova un minimo di riferimento storico sul periodo e sul clima che vivevamo. 

Per allora, collocarsi nel ristretto bacino dell’indipendenza culturale non era cosa facile, regnava infatti una specie di “politicamente corretto” con cui bisognava fare i conti continuamente, erano richiesti atti di fede occulti e quello che allora sembrava una libertà di espressione era invece un continuo allinearsi a un pensiero di sinistra opprimente. Un giorno anche di questo bisognerà raccontare. 

Io appartenevo alla grande tribù progressista che vedeva nei socialisti un porto sicuro dopo la fine delle esperienze derivate dal Sessantotto e occupandomi di cultura, mangiando con quella - come si direbbe oggi - vivevo in prima persona quella dialettica complessa, insieme a Sassi, ovviamente. La vera stranezza era rappresentata da una specie di corto circuito politico per cui Sassi, comunista convinto, non ebbe mai alcun aiuto dal suo partito, tranne che, va riconosciuto, nel 1986 dall’assessore alla Cultura Luigi Corbani (esponente del Pci della corrente migliorista) mentre io fui confortato moltissimo dai socialisti, rappresentati dai vari sindaci lungimiranti che, pur con battaglie all’ultimo sangue, non ci fecero mai mancare i finanziamenti necessari per organizzare le nostre iniziative. Ciononostante i soldi furono sempre un problema gigantesco di cui dovetti occuparmi perché Sassi non ci pensava.

Credo di aver imparato in quel periodo il concetto base per affrontare queste avventure: i soldi si trovano.

Oggi penso che Gianni fu il paladino del pensiero poetico di quegli anni perché era lui stesso un poeta ed era dunque in grado di interpretare, meglio di chiunque altro, quel bisogno di espressione furibondo e scapigliato che serpeggiava in quegli anni dove comunicare era difficile e complesso.

Infatti cominciamo col dire che Gianni Sassi fu un grande art director e paroliere d’eccezione, pubblicò Area, Finardi, Camerini, Battiato, solo per ricordarne alcuni e fondò la Cramps Record, che era “l’etichetta” di musica progressiva e d’avanguardia fondata nel 1973.

Si può dire che la Cramps nasca con il disco degli Area-International POPular Group per me più significativo, Arbeit Macht Frei che conteneva, fra le altre, due canzoni mito: Luglio, agosto, settembre (nero) e L’abbattimento dello Zeppelin. I testi erano di Frankenstein, che altri non era se non Sassi sotto pseudonimo. 

La Cramps era il fiume: con una sponda fatta da Sassi e la sua genialità di art director e poeta e l’altra dagli artisti che di volta in volta lui chiamava a collaborare e di cui produceva i dischi. Perché allora si chiamavano così, i dischi… In mezzo scorreva potente la musica, la dialettica, la fratellanza, un’idea di società nuova, di impegno civile, di divertimento e di mode culturali.

E tutto questo si condensò nel progetto di MilanoPoesia.

Grafico e talent scout: non c’è innovazione che, nei decenni Settanta e Ottanta, non lo abbia visto artefice o partecipe. Un esempio per tutti della sua “visione poetica del mondo” è l’esaltazione grafica dell’incontro delle due mani nella Creazione di Adamo di Michelangelo, il particolare più noto del Giudizio Universale, è opera sua e diventò poi oggetto di innumerevoli citazioni e omaggi. Lui ne fece la copertina di un catalogo e il manifesto di un’edizione di MilanoPoesia che, a tutti gli effetti, rimane ancora oggi la più importante rassegna multi artistica dedicata all’argomento poetico che organizzammo assieme instancabilmente per dieci anni.

Mi pare che in queste poche righe ci sia tutto il necessario per comprendere la levatura culturale di Sassi e ce ne vorrebbero altrettante per raccontare della sua generosità, l’essere integerrimo e curioso, mai stanco del suo lavoro eppure sempre schivo nei suoi successi. 

A me manca molto e ancora oggi mi sorprendo a ricordare i nostri quattro passi per andare a prendere il caffè nel bar all’angolo dove lui comprava anche le maledette sigarette.

Oggi sembra facile parlare di comunicazione e cultura, in fondo la banalizzazione cui assistiamo nel rapporto tra medium e messaggio probabilmente è la vera responsabile del mancato riconoscimento che Sassi merita. Ancora oggi.

Mi piace pensare che la Poesia e i poeti gli debbano moltissimo, pur rimanendo per loro uno sconosciuto Frankenstein. 

 

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