La sensorialità furibonda de La Fura dels Baus

Livia Valenti

Mia mamma settima scorsa mi disse: «La Fura dels Baus viene a Milano. Bisogna andare a vederli. Sono pazzi, l’ultima volta giravano con una motosega tra il pubblico». Lei tende a gonfiare i racconti, una motosega tra il pubblico? Impossibile. Chiedo a mio padre: «No, non c’era nessuna motosega. Io ricordo che tiravano frattaglie di pollo, fegato, intestino e zampe». Che schifo. «Poi giravano tra il pubblico ti acchiappavano e spogliavano completamente. Sì, erano attori quelli nudi però eri terrorizzato che prendessero anche te». Aiuto. Vado a vederli inviata da Re Nudo ieri, nel nuovo spettacolo Sons: ser o no ser, grazie a dio con una mia amica (consiglio per i neofiti de La Fura come me: non andate da soli). La cattedrale della Fabbrica del Vapore sembra un prisma, sulle pareti sono riflesse e proiettate sagome di alberi, alberi spogli, case fatiscenti, una luce color petrolio, detriti, ricordi di rumori da film dell’orrore. Come ti immagini che sia il mondo dopo un’Apocalisse Zombie. Infatti, uomini incappucciati come apicoltori col mantello e una torcia da 5000 lumen in fronte portano tra il pubblico - siamo tutti in piedi - delle bare. Siamo in un cimitero? Poi uno strillo, uno sparo, e l’annuncio dell’Apocalisse: c’è un virus che vi prende il fegato e le interiora. Siete morti. Siamo morti? Un Amleto zombie riemerge dall’oltretomba in cerca del fantasma paterno, un gigantesco mostro a due teste e braccia tentacolari formato dai performer appesi in aria da un intricato sistema di cavi e carrucole. Attori e performer oscillano (o meglio, si scaraventano) da una parete all’altra, devi spostarti e scappare altrimenti ti becchi un calcio in faccia, sono tutti fasciati da un cellophane strettissimo e grondante di sudore, vedi i corpi straripare da quelle vesti plasticose che si dimenano in cerca di ossigeno, di libertà, di fuga. Da chi? Da che cosa? Ti sembra quasi di vedere le ossa di questi zombie alati, squarciano la membrana di cellophane e risorgono, come un feto che spezza la placenta, ora la cassa toracica può respirare, riempirsi di aria e urlare. Sono le urla dei primi uomini sulla terra, urla primitive, paleolitiche, ancestrali. Tu, povero stupido spettatore, non capisci, senza parole non capisci, ma senti come una rivelazione sensoriale: sei lì, immerso con tutti i sensi, hai paura, c’è un fortissimo odore di brace, carne, grasso sciolto (sta andando a fuoco qualcosa?) Ed è quella sensorialità furibonda che ti mangia, ti divora. La regia di Carlus Padrissa ti parla in un linguaggio simbolico, sinestetico, compenetrante. Dov’è la mia comoda poltrona? Dov’è il mio lusso di poter guardare e basta? Dov’è lo spazio, il palco, il sipario che mi separa dal luogo dell’azione al luogo della visione? Non c’è, anzi c’è, è un sipario nero gigante velocissimo che taglia Cattedrale in due sezioni, sembra fatto di quel materiale delle sacche mortuarie (non le ho mai viste, ma me le immagino così. Rigide, nere, impermeabili, ermetiche). Cosa sta succedendo dall’altra parte del sipario? Sì, c’è il pubblico, li hai visti, lo sai, eppure c’è qualcosa che ti fa pensare che stia succedendo qualcos’altro. Una cinepresa passa in carrellata tutte le facce dei tuoi vicini di banco ma quando svolta l’angolo c’è una festa, gente che balla si scatena, brinda, si droga forse, e non capisci chi diamine siano questi, dove sono, è una stanza segreta, una registrazione, eppure sento le loro voci, i loro odori. Qual è la realtà? Così cominci ad abbandonare ogni rigore logico, sei in un altro universo, quello del prelogico, delle immagini, dei simboli. Non valgono più i principi gravitazionali, le leggi biologiche, lo spazio-tempo. Come nei sogni o, qualcuno dice, come nell’esatto istante prima di morire. La Fura dels Baus ti scaraventa addosso - letteralmente - la morte. Un tanfo acre di zolfo, fango, argilla e uovo marcio. È la frenesia del potere che porta la morte, il potere della pubblicità, della manipolazione, del progresso sfrenato, della macchina mortale dell’intrattenimento e dello spettacolo, che rimane a fissare Ofelia che annega in una teca di vetro. Ma noi siamo troppo abituati a pensare che quella cella di tortura piena d’acqua sia solo un trucco, che ci sia un’uscita segreta, è solo un gioco d’illusione e prospettiva. Non ci crediamo alla morte, perché guai a parlarne. È tutto finto, artificiale, e ci piace così, non vogliamo brutte sorprese. Non vogliamo favole nere. Ci fa schifo essere toccati da questi zombie che strisciano fuori da un pentolone straripante di argilla, riemergono in posizione eretta, e come in un rito di passaggio si fondono con te, ti cercano, ti abbracciano e ti baciano le guance. Tutti roteano per schivare i mostri e si formano grossi aloni di spazio vuoto tra noi, un gregge compatto, e loro, ombre che si aggirano in cerca di corpi. Tranne gli anziani, ho visto tanti anziani (forse i più consapevoli della morte) sfiorare le loro mani, unire le dita pulite alle dita infangate e guardarsi negli occhi. Poi sorridevano. Forse la morte è il vertice massimo della libertà.

P.S.: ho sentito dire che questo spettacolo è all’acqua di rose, che La Fura dels Baus è famoso per il suo senso di minaccia e paura fisica, che si sono spostati verso una forma più filosofica… la morte non è filosofia. È la cosa più fisica che esista. 

Avete tempo fino al 14 dicembre. Non perdetevelo.

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