La presenza di queste donne nella storia della musica è sempre legata alla “concessione” di un padre, un marito, un tutore, un amante che, in veste di mecenate che se da una parte ha riconosciuto il talento, dall’altra ha creato un equivoco: può una donna ottenere successo attraverso i suoi meriti senza un supporto maschile?
Solo nei conventi o nelle famiglie di musicisti alle donne veniva data una seria preparazione musicale che si poteva esprimere solo in ambienti sorvegliati. La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina è la prima opera composta da una donna. Siamo nel 1625 e Francesca Caccini raggiunse fama di abile compositrice tanto da riuscire a cimentarsi nel genere appena inventato: il melodramma. Primogenita in una famiglia di musicisti della corte Medicea di Firenze, venne istruita dal padre. Richiesta da re e regine, suonava il liuto e il clavicembalo cantando in francese e in spagnolo. Viaggiò in tournée per le corti europee prima con il Concerto Caccini (formato dal padre Giulio, dalla sorella Settimia e dalla matrigna) e in seguito accompagnata dal marito. Alla morte di quest’ultimo si interruppe anche la sua carriera.
Figura modernissima Barbara Strozzi. Nacque nel 1619 a Venezia, città all’avanguardia per le libertà concesse alle donne. Infatti, benché fosse figlia illegittima, ereditò una grande somma dal padre - Giulio Strozzi, poeta e avvocato - grazie alla quale si mantenne pubblicando opere in autonomia e, senza mai sposarsi, ebbe quattro figli da due relazioni diverse. Un’indipendenza che le costò cara: venne definita con spregio “femina educata in libertà”, invettive che non le impedirono di essere una delle compositrici più capaci e rinomate del Seicento.
Anche la veneziana Antonia Padoani Bembo studiò musica per intercessione del padre. Una volta sposata, però, il marito le proibì qualsiasi esibizione. La folle gelosia portò quest’ultimo a segregarla e usare violenza contro lei e i figli. Riuscì a fuggire alla corte del Re Sole, che ne riconobbe le straordinarie doti di compositrice.
Se non ci sono prove del fatto che Maria Anna Mozart, chiamata Nannerl, fosse più brava del fratello Wolfgang alla composizione e al clavicembalo - abilità che il padre insabbiò con un matrimonio - di sicuro molte composizioni di grandi nomi sono delle “false attribuzioni”. Prima del Seicento era rarissimo che una donna firmasse proprie opere, difficilissimo poi che venissero trascritte o stampate: si stima che la maggior parte delle composizioni di donne non siano giunte a noi per questo motivo. Era concesso ad una donna esser capace quanto il marito o il fratello? Evidentemente, no.
Così avvenne per Clara Wieck, straordinaria pianista e compositrice del Romanticismo tedesco che represse i suoi talenti a seguito del matrimonio con il poi celebre Robert Schuman. Sorte migliore non toccò a Fanny Mendelssohn, sorella dell’illustre Felix o ad Alma Schindler, poi moglie di Gustav Mahler.
Vita più semplice e migliori soddisfazioni e carriere avranno le pianiste e compositrici Cécile Chaminade e le sorelle Nadia e Lili Boulanger, le cui possibilità di libera espressione furono segno di un cambiamento che interessò tutte le donne nel passaggio al Novecento.
Nonostante i feroci tagli alla cultura siano una prassi, quando quest’ultima serve alla politica non vi sono limitazioni di sorta, ieri come oggi.
I rapporti tra potere e corpo della donna non sono iniziati con Mata Hari o Josephine Baker. La strumentalizzazione del corpo femminile e della sua espressione artistica si ritrova già presso la corte Rinascimentale di Ferrara. Notissimo all’epoca il Concerto segreto delle dame principalissime di Margherita Gonzaga d’Este, donne d’alto lignaggio le cui esibizioni “segrete” erano usate dal duca Alfonso II d’Este come strumento politico. Una sorta di luogo eletto ove solo pochi erano ammessi. Anche a Venezia il sistema di equilibrio sociale aveva creato un luogo di salvezza e tortura allo stesso tempo: gli “ospedali”, veri e propri conservatori dove le ragazze orfane venivano istruite alla musica. Private della libertà personale in cambio di un posto “degno” e un pasto assicurato, queste donne si esibivano dietro delle grate, senza possibilità di uscire.
Se arte e virtù risultano in corrispondenza perfetta per gli uomini, tanto non si può dire per le artiste. La paura di essere mal giudicata senza il supporto di una “protezione maschile” è stata (ed è) una realtà. Salvare la reputazione si aggiungeva allo studio, al sacrificio e alla dedizione che comporta l’affrontare una carriera artistico-musicale. I preconcetti contro le donne lontane dallo stereotipo della madre di famiglia non aiutavano; basti pensare che fino a tutto il Settecento le cantanti in tournée venivano alloggiate nel quartiere delle prostitute.
Si dovrà arrivare all’Ottocento affinché le cantanti vengano accettate a livello sociale come professioniste e oneste lavoratrici: centinaia di donne - compositrici, musiciste, cantanti - costituiscono un silenzioso esercito di combattenti che hanno permesso quelle libertà di cui soprattutto la musica leggera oggi gode i frutti.
Ma la strada che porta all’emancipazione non è finita, è ancora lunga. È ancora molto frequente assimilare sessualità a talento artistico, sfruttando il corpo femminile come strumento o veicolo di successo: anche nella musica classica molte artiste si esibiscono con spacchi e scollature vertiginose.
Finché non saranno le donne stesse a puntare solo sul proprio talento non vi sarà una vera emancipazione in campo artistico e, ai più, sembrerà ancora “strano” vedere un direttore d’orchestra donna sul podio.
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