1994 – 2011 In morte di un criminale

Matteo Corfiati

Se sei stato calpestato nella tua vita, nei tuoi principi, nelle tua sessualità, nelle tue inclinazioni, nelle tue idee da qualcuno che a te e ai tuoi principi ha pisciato sopra alla turca ridendo e scoreggiandoti nelle orecchie non prostrarti, non mostrarti misericordioso solo perché ti sembrava simpatico prima o un simpatico vecchietto dopo, oppure l’hai visto una volta dal vivo o più volte in tv o hai lavorato per lui.

Tu che sei per i diritti, per lo Stato, per le donne, per i lavoratori, per la Giustizia, per le vittime di mafia, la libertà, la cultura. Se muore uno che non aveva rispetto per nessuna di queste cose, fidati: era una merda, è morto ma rimarrà per sempre una merda.

Di casi ce n’è a iosa, uno su tutti è recente e chiunque stia leggendo ha capito di chi si parla.

Cioè di quel dittatore che ha dominato la scena per 17 anni, dal 1994 al 2011.

Dal 1994 al 2011.

17 anni. I più lunghi, intensi, difficili e dannosi della storia del Paese nel dopoguerra.

17 anni di danni. Soprusi. Scorrettezze. Ruberie di ogni genere. Malaffare. Scorribande. 

17 anni oscuri. Punteggiati da accordi con le mafie. Strette di mano. Omicidi. Attentati. 

17 anni di riciclaggi. Soldi neri, eppur veri.

17 anni che hanno cambiato la Storia di un Paese che aveva un’occasione e non l’ha sfruttata, rovinandosi per sempre.

17 anni, dal 1994 al 2011.

Faceva piuttosto caldo quel giorno del 1994 in cui la morte certificata del potere sul quale si era fondata una nazione dal primo dopoguerra aveva lasciato spazio a una potenziale rivoluzione concettuale prima ancora che economica, umana prima ancora che filosofica.

Lui era la possibilità. La via d’uscita. La marcia in più.

Lui era l’uomo del destino.

Solo che lui non aveva nessuna intenzione di far progredire il Paese. Nessuna idea se non l’unica, certa, chiara, irrinunciabile: cambiarlo in peggio. Se la gente vuole il cambiamento vuol dire che fondamentalmente è debole ed è facile prenderla in contropiede.

Così fece.

Era appassionato dei blockbuster americani e dei programmi televisivi stranieri, in particolare dei western, di Rambo e delle pellicole sentimentali anche se lui era fondamentalmente un maniaco sessuale. Anzi, un predatore, molto peggio. C’era un’attrice in copertina su un qualsiasi giornale? Di qualsiasi rango, estrazione, età? Era sua, lei quasi sempre controvoglia.

Rambo, quindi. Appassionato di action-movie ma completamente disinteressato e privo di qualsivoglia capacità politica, al momento dell’ascesa al potere prese lucidamente una decisione che lo farà passare alla Storia: avrebbe governato con la tv piallando il livello culturale del Paese. Con la tv avrebbe influenzato gli umori della nazione, solleticato l’immaginazione delle persone, indirizzato le scelte dei concittadini, fornito al pubblico i riferimenti di cui necessitava, meglio se americani e comunque occidentali, magari adattati ai gusti e ai modi locali, con qualche concessione alle produzioni dell'Est asiatico.

Ci riuscì.

Nessun provvedimento politico. Nessuna riforma. Immobilismo governativo. Niente di niente. Solo purghe nei confronti dei dissidenti e inevitabile recessione economica. E star fatte arrivare dall'estero per soddisfare l'immaginario di un pubblico ancorato a una tv piuttosto vecchia e polverosa.

Tv. Immagine. Cerone. Sorrisi. Rassicurazioni.

E rappresentazioni tanto ricche quanto kitsch che distraevano la massa dai problemi reali di un Paese spezzato da anni tra Nord e Sud che aveva problemi enormi in un momento di passaggio, delicato e pieno di interrogativi.
Interrogativi che a lui parevano interessare comunque poco, lui che si godeva immense ricchezze a dispetto di una nazione che in ogni caso, paradossalmente, lo idolatrava.

Un Paese, il suo, oppresso dietro i riflettori.
Un Paese, il suo, manipolato dall'informazione che cancellava o ridicolizzava chi la pensava diversamente. 
Un Paese, il suo, schiavo di un potere fondato sulla propaganda nera, a tutti i costi, a dispetto dei vecchi e dei bambini, dei lavoratori e delle donne.

Lui amante delle donne, di tutte le donne, volenti e soprattutto nolenti. Amante degli eccessi, delle feste fuori dalle righe. Amante dei party con i membri del partito, con le personalità influenti ma reverenti al cospetto del capo. Amante delle orge del sesso a pagamento esibito, meglio se di gruppo.
Lui al di sopra della Giustizia e dello Stato di cui non si ricorda una sola riforma di rilievo, burattinaio delle forze dell’ordine che massacravano a comando. Falangi di Stato, marionette in divisa.
Lui mandante di delitti e rapimenti, insabbiamenti e depistaggi, pestaggi e stragi, intimidazioni.
Lui amico di capi di Stato di dubbia provenienza, presidenti camuffati da dittatori e dittatori camuffati da presidenti. Lui potente e paranoico, megalomane e crudele, pazzo.
Lui leader familiare, agli occhi di quelli che erano suoi sudditi e continuavano a dargli credito, grazie a una narrazione sceneggiata nei minimi dettagli. La narrazione che ne decantava l’amore per il proprio Paese, che amava a parole ma non nei fatti, mai, al punto da parlare così - all’apice della sua parabola - dei suoi connazionali, mosso da un totale disinteresse verso di loro: “È tutta una menzogna. Stanno solo fingendo di lodarmi”.
Lui passato alla Storia, purtroppo e non sempre come il peggiore dei cattivi qual era.
Lui controverso.
Lui che ha lasciato alla prole, inadatta e incapace come il padre, libertina e poco trasparente, il controllo dell'impero.

E, alla fine, il funerale. La speaker del notiziario in lacrime. Il lutto nazionale durato troppi giorni. La folla davanti e intorno alla bara, lo Stato paralizzato senza motivo.

Questo era lui.

Questo era e sarà per sempre Kim Jong Il.

La figura e la parabola politica di Kim Jong-Il in Corea del Nord, qui riassunte fedelmente ma in breve, sono raccontate nei dettagli nel libro “Una produzione Kim Jong Il”, di Paul Fischer (Bompiani, 2015)

 

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