All’interno del carcere minorile il valore del teatro si è trasformato in uno strumento utile per il minore per potersi riscattare sia in termini sociali sia giudiziari, ma soprattutto per autoaffermarsi e trovare il proprio benessere psico-fisico. Questo strumento, nel corso del tempo, ha saputo entrare nel quotidiano dei ragazzi cercando di dare loro la consapevolezza che è possibile uscire da quegli automatismi delinquenziali di cui molte volte non sono neanche consapevoli. Il teatro è diventato così una occasione, reale, del proprio riscatto. Ma le occasioni non nascono dal nulla. Puntozero opera dal 1995, da quando un giovane obbiettore di coscienza, Giuseppe Scutellà, che è il regista della compagnia, entrò al Beccaria subito dopo la laurea all’Accademia di Arte Drammatica Paolo Grassi. L’idea iniziale era quella di costituire un laboratorio teatrale che desse un senso a quello al proprio “immaginare e fare teatro” e cercando di dare senso e concretezza a questa intenzione. L’obbiettore/regista non è più uscito dal Beccaria. Col tempo il progetto è cresciuto, con delle tappe importanti, come ad esempio l’incontro con Lisa Mazoni, attuale presidente della compagnia, fautrice del progetto di ristrutturazione del teatro, interamente finanziata da raccolte fondi. L’esperienza di teatro “tra le sbarre” ha una caratteristica molto importante: lavorare sugli agiti delle persone. Il teatro è forse la prima forma di sapere che passa attraverso la conoscenza del se, la conoscenza dell’altro e del mondo che viviamo. Quando i ragazzi recitano in questo contesto, una componente molto importante è quella ludica, cioè il saper giocare per tornare alla propria età anagrafica. Perché è bene ricordare che siamo di fronte a ragazzi molto giovani le cui età vanno 14 ai 25 anni massimo. Quindi, un primo importante obiettivo è quello di restituire loro la volontà di stare al mondo andando a rompere schemi delinquenziali acquisiti nel loro vissuto. Una volta che si inizia a praticare teatro ci si confronta con quello che è il proprio saper fare, che significa anche saper agire in modo diverso rispetto a quello che si è sempre fatto e che ha portato alla detenzione. Pensiero che si può riassumere con “sapere fare per saper essere”. Questa è la chiave che il teatro ha per cambiare le situazioni e le persone: fare riflettere su ciò che accade e si compie nel proprio vissuto e, a questo proposito, Shakespeare direbbe che noi siamo sempre sul palcoscenico, siamo sempre coloro che stanno recitando. Il potere del teatro è quello di farci immaginare noi stessi proiettati in altri contesti/palcoscenici e nel futuro, ma in un futuro di cui noi non abbiamo le chiavi, ma di cui possiamo presagire cosa ne sarà. Questo è importante per i ragazzi, spesso in balia di eventi e compiono azioni senza nessun tipo di logica e retro pensiero ma solo agendo per istinto che, spesso, è distruttivo. Ciò che maggiormente importa è capire se, questo “diventare altro” attraverso il teatro è proficuo per i ragazzi detenuti. Al Beccaria da diversi anni è possibile constatare come, lentamente ma con costanza, riescono a rimpossessarsi di se stessi e imparare un mestiere (il teatro non è solo recitare, ma anche lavorare su altri campi, imparando un mestiere): autodeterminandosi si ritrovano, lavorano quotidianamente su ciò che loro sono. L’esperienza del teatro trasforma i ragazzi che trovano un proprio benessere psicofisico perché il teatro insegna a stare bene con se stessi e ad essere capaci di fare altro. Ai ragazzi, “profughi” di esperienze comunque difficili, bisogna far venire voglia di apprezzare un lavoro, a prescindere da quale sia, l’importante è che trovino un barlume di felicità per avere un equilibrio interiore per quando si va in scena dove non si può essere “fuori di se” ed è necessario essere sempre in sintonia con gli altri. Fondamentale, però, è non pensare di dover “cambiarli”: ciò che bisogna fare è fargli assaporare cosa c’è oltre a quello che sanno già. Generalmente ciò che conoscono è un insieme di storie tristi e devastanti, invece c’è ed esiste anche la bellezza. Il teatro può essere lo strumento che scardina gli stati d’animo e i pregiudizi grazie a quella grammatica sentimentale di cui tutti noi abbiamo bisogno: parole come empatia non rimangono solo suoni, ma si riempiono del vissuto di chi realmente li frequenta con lo strumento teatro. Andare a lavorare su altri vissuti dà loro la chiave del cambiamento e significa concedere una nuova visione su quello che è il vivere nel mondo. Ma il momento clou di questa esperienza sta alla chiusura del sipario, quando il pubblico applaude gli attori: questo è un grande ritorno immediato del raggiungimento degli obbiettivi dell’esperienza. In quei momenti, quello che maggiormente sorprende attori, regista, staff, sono le reazioni di stupore del pubblico che quando entra nel teatro del Beccaria pensa di vedere dei ragazzini reclusi con una sorta di spirito compassionevole. Appena si spengono le luci il pubblico dimentica di essere in un carcere e si gode lo spettacolo e, alla fine, comprende di aver partecipato ad un evento “grandioso”. Poi arriva la catarsi del boato in sala a fine spettacolo che evidenzia che quando i ragazzi sono in scena, sono attori a 360 gradi e non attori-detenuti. Questo feedback è fondamentale per chi recita e per chi funge da regista perché stupisce ed emoziona e convince tutti a continuare in questa opera di “ricostruzione” morale, spirituale, etica, umana dei ragazzi. Alla fine lo spettatore vuole incontrare attori e regista per confrontarsi su ciò che ha assistito perché ha capito che quella sul palco è vita vera, e non solo recitata. La società impone a ciascuno di indossare una maschera che Marx chiamava “Charaktermaske” ma è bene sottolineare che non esiste una maschera sola, ognuno di noi ne ha tante e la sincerità non sta nel buttarle via ma riuscire a indossare quella giusta nelle situazioni corrette. Al di là di quelle teatrali, abbiamo le maschere che ci consegna la quotidianità, che fanno di noi ciò che siamo. Alla luce dell’esperienza teatrale di Puntozero si comprende quanto sia importante insegnare ai ragazzi che ci sono diverse modalità di stare su palcoscenici diversi e questa consapevolezza è molto importante, soprattutto per quanto concerne il rispetto delle regole. Il teatro più che far gettare le maschere aiuta ad averne molte di più, non per saper mentire meglio, ma per saper dire la verità in ogni contesto e situazione e in rapporto ai contesti e alle persone che si incontrano nel corso della propria esperienza di vita. Questa esperienza è bidirezionale perché il teatro rappresenta fantasia e libertà, e inserirlo in un contesto come quello carcerario è come tarpargli le ali. Grazie all’esperienza di Puntozero questa negatività non si manifesta perché anche gli “operatori” hanno imparato a far sì che si possa lavorare, positivamente sui ragazzi pur nella difficoltà di un luogo come un carcere minorile. I ragazzi, da parte loro, aiutano a costruire un metodo di lavoro: fare teatro in carcere è diverso che farlo fuori, e i primi a capirlo sono stati gli operatori. Può questa esperienza eliminare le maschere che i ragazzi si portano appresso? Se la maschera è qualcosa che serve a coprire e nascondere allora certo, bisognerebbe toglierla. Fare l’attore è cercare di togliere tutti quegli ostacoli che non ti permettono di essere creativo. Siano essi di natura tecnica ma, soprattutto, esistenziale, per arrivare ad una tranquillità interiore. In questa esperienza è fondamentale il rapporto con le istituzioni quali il Comune di Milano, il Dipartimento di Giustizia Minorile, la Direzione del carcere, l’Università degli Studi di Milano ma non guasterebbe mettere a sistema questo lavoro con qualche finanziamento a lungo termine perché tutto quello che viene fatto nel teatro del Beccaria è totalmente autofinanziato attraverso la partecipazione a bandi e con il sostegno di Fondazione Cariplo e Fondazione Marazzina. Questa esperienza dovrebbe essere messa a sistema perché è fondamentale trasferire il concetto che anche il sociale ha bisogno di cultura, che è la chiave di volta per aprire nuove prospettive di vita ai giovani detenuti. Sarebbe altresì importante che gli operatori potessero trovare in questo delicato lavoro anche il giusto e dovuto ritorno economico di modo che l’esperienza questa possa proseguire nel tempo. Nella predisposizione di una rappresentazione teatrale viene spesso utilizzata la drammaturgia di Shakespeare, in particolare Romeo e Giulietta come percorso di avvicinamento dei ragazzi per far capire loro la vitalità del teatro e allontanarli dal pensiero che sia qualcosa di distante. Nelle scorse settimane in cartellone c’era la rappresentazione di Antigone dove il pubblico ha potuto vedere quanto i ragazzi sono mossi e smossi dai loro stessi vissuti, legati al fatto che la legge l’hanno vissuta sul proprio corpo. Parlare di legge giusta e sbagliata, divina e umana in qualche maniera smuove dibattiti che vanno al di là dello spettacolo tra chi recita e con il pubblico. Quasi tutti i lavori proposti non si discostano da una riflessione vicina alla giustizia anche se, ovviamente, ce ne sono stati alcuni utilizzati per poter lavorare anche sull’immaginazione come Alice nel paese delle meraviglie o Romeo and Juliet disaster, ma in generale le rappresentazioni preferite sono quelle che richiamano a un vissuto di chi recita (e, forse, anche a quello di chi assiste). Una gran bella esperienza a portata di città. Un consiglio: fate un giro su puntozeroteatro.org e andate a vedere uno spettacolo. E poi…si continua… Fanno parte del Gruppo teatrale Puntozero - Marco A. - Carlotta Bruschi - Vanessa Costa - Federico Frascella - Greta Greppi - Lisa Mazoni - Martina Medici - Andrea Olioso - Mattia Romeo - Rocco Sapienza - Enea Pablo Zen Scutellà - Giuseppe Scutellà - Alex Simbana - Alessandra Turco
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