Cosa si aspettano i giovani dal lavoro? Soldi? No. Da un’indagine commissionata da una rappresentanza sindacale emerge che al primo posto mettono la qualità delle relazioni; al secondo il significato e il valore, personale e sociale, di ciò che andranno a fare. Solo al terzo posto arriva la questione del compenso, tra l’altro a pari merito con la possibilità di armonizzare tempi di vita e tempi di lavoro per dedicarsi anche a momenti personali. Tutto ciò ha semplicemente del clamoroso, perché pur avendo i salari più bassi d’Europa i giovani italiani non cercano primariamente retribuzioni alte.
Con un mercato del lavoro sostanzialmente bloccato e comunque imprevedibile, una scuola incapace non solo di preparare al domani, ma anche di interpretare il presente si capisce perché ai giovani non rimangano che le relazioni, i valori personali, il tempo libero. Tutti aspetti che rientrano nella cosiddetta “qualità della vita”. Sicuramente il vissuto della pandemia con l’isolamento sociale e la conseguente esperienza dello smart working hanno accelerato la crescita di una nuova centralità dei valori personali, della qualità delle relazioni, del fattore tempo e della necessità di perseguire il benessere nel modo più completo possibile, però è in atto una presa di coscienza che il lavoro, invece di “nobilitare l’uomo”, lo avvilisce.
Il rider che oggi va in giro sotto la pioggia a consegnare pacchi non vive relazioni sociali interessanti, stesso discorso vale anche per quello che sta a casa a lavorare sul computer per non si sa bene chi, al quale lo lega un contratto da precario.
Se trent’anni fa l’ingresso nel mondo del lavoro costruiva il passaggio verso una pienezza di cittadinanza e grazie a posizioni contrattualizzate si aveva anche tutta una serie di tutele (dalla pensione alla salute) adesso, per i tipi di contratti che bisogna accettare per iniziare a lavorare, si è ribaltato il rapporto: è la cittadinanza che eventualmente può diventare una forma di tutela sul lavoro. La nostra Costituzione chiede a ogni cittadino di dare, attraverso il lavoro, il suo contributo alla costruzione della convivenza, ma in queste condizioni...
È per questo motivo che oggi c’è sempre più l’esigenza di avere tempo “disoccupato-disponibile” per costruire la propria identità personale e sociale, un “tempo” che si trasforma in una variabile rilevante delle relazioni sociali, rapporti che prima si costruivano in ufficio o in fabbrica.
Le generazioni precedenti hanno vissuto in un altro clima, oggi si vive il lavoro in gran parte come esperienza di sradicamento dal vincolo sociale, prima era il luogo della sua costruzione.
I tempi cambiano, e qui da noi non sempre in meglio. In Italia ai trentenni dicono di lavorare gratis per imparare, in Francia li fanno primi ministri.
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