Tre film visti all’82esima Mostra del Cinema di Venezia invitano a riflettere sull’importanza della voce, in un’epoca descritta invece sotto il regno dell’immagine. Il riferimento più scontato è al film The Voice of Hind Rajab, vincitore del Leone d’argento ma da tutti – critica e pubblico – considerato l’opera più interessante e sconvolgente fra i film in concorso. Qui la voce è quella di una bambina palestinese di cinque anni, rimasta intrappolata in auto a Gaza in mezzo ai familiari già uccisi, che da dentro l’abitacolo implora i soccorsi perché un carrarmato israeliano è ancora lì, davanti a lei. Nel film non si vede nulla della scena di guerra né tanto meno vediamo la bambina, ma la sua voce si sente, a più riprese, durante il film, ed è quella vera, perché l’episodio è davvero accaduto a gennaio 2024 e il film è di fatto il racconto di quel soccorso mancato, da parte della Mezzaluna Rossa. La prospettiva del film è sempre quella del centralino da cui si diramano le indicazioni per le ambulanze, che possono partire solo quando i militari israeliani acconsentono a non sparare, lungo un percorso ‘sicuro’ - ma per me la notizia è che altrimenti a Gaza si spara sulle ambulanze, come il film dimostra. È proprio il fatto di sentirla senza vederla – il film mostra il tracciato audio mentre si ascolta la voce, non si può non pensare ad un elettrocardiogramma – cioè di doverla immaginare a restituire la forza evocativa e suggestiva che solo l’audio ha. Perché l’immagine satura, di fatto impedisce di immaginare liberamente, mentre una voce è sempre un racconto che ci lascia scegliere le figure, colorandole come si vuole. Fa un’operazione diversa Broken English, film della coppia di artisti inglesi Iain Forsyth e Jane Pollard. La voce protagonista è quella meravigliosa della cantante Marianne Faithfull, che nel film rivede i filmati di repertorio della propria vicenda artistica e non solo, e li commenta dialogando con una figura che sta a metà fra il ricercatore e l’archivista. Marianne Faithfull è davvero lei, i documenti sono autentici, ma c’è un elemento di finzione: lo studio in cui avviene questa ‘revisione’ dei filmati si chiama ‘Ministero della Non Dimenticanza’, e ha il compito storico di curare la memoria. Il motivo per cui quel ministero si prende a cuore la vicenda della cantante è che nel caso della Faithfull “il database è corrotto” - dice Tilda Swinton che dirige il ministero - perché lei è stata una figura mitica e trasgressiva, coraggiosa nelle sue prese di posizione ed eccessiva nei suoi comportamenti; quindi, l’immagine che ne abbiamo oggi – sulla scia dei titoli di giornale di allora - è essenzialmente scandalistica. Il commento pacato e lucido della Faihtfull di oggi a quei filmati restituisce la verità di quelle vicende, il senso del suo punto di vista, la ricchezza e l’intelligenza di una donna che altrimenti sarebbe rimasta famosa solo come ‘la donna di Mick Jagger’. Insomma, una voce che parla, riflette, risponde, diventa la didascalia che mancava ad un immaginario alterato dal moralismo di allora, ed è interessante l’allarme che lancia Tilda Swinton: se l’IA diventerà la nostra principale fonte, dobbiamo curare ciò di cui si alimenta perché in un caso come questo avrebbe generato un racconto sbagliato. In Newport and the Great Folk Dream si parla ancora di musica e di voce, ma per dire una cosa diversa. Newport è la sede di un festival, ancora attivo, nato nel 1959, che ha fatto da incubatore e custode del genere folk, nei suoi anni d’oro, cioè nei primi anni 60. Di quella stagione sono state rivenute delle bobine di ripresa, mai utilizzate, che sono state montate per il documentario proiettato alla Mostra. Quel festival, in quegli anni, è l’emblema di una stagione straordinaria degli Stati Uniti, perché il folk è stato la voce della gente comune: erano testi della tradizione popolare che accompagnavano tanto il lavoro nei campi quanto le ninne nanne, canzoni che si cantavano senza strumenti, con percussioni improvvisate o con la chitarra acustica, attorno al fuoco. Si capisce da quelle immagini che il folk univa anche le generazioni, i giovani e i movimenti studenteschi lo adottarono - con Bob Dylan nasce la figura del cantautore - i testi furono la voce del pacifismo, dell’ecologismo, dell’opposizione alla guerra in Vietnam. Riascoltandolo, capisci che era un genere fatto per valorizzare il messaggio, nel quale le parole prevalgono sulla musica, il ritmo è pacato, non viene da ballare ma se mai da cantare insieme. Poi nel 1965 cambia tutto: i gruppi del momento sono i Beatles e i Rolling Stones, pop e rock incendiano la scena musicale mondiale, e Newport – che era il tempio del folk, molto attento a cosa potesse iscriversi in quel genere – vede improvvisamente comparire sul palco il suo vero nemico, la chitarra elettrica. C’è un vero fastidio per quei cavi e per l’amplificazione degli strumenti, perché si capisce che i nuovi generi avrebbe invertito l’ordine, i suoni avrebbero sovrastato la voce, il testo avrebbe perso di centralità, quella pacatezza e quei rituali comunitari sarebbero via via scomparsi. Solo che a prendere in mano la chitarra elettrica fu proprio il paladino di quel pubblico, Bon Dylan, sommerso di fischi.
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