Oltre le mura

Stéfano Pérez Tonella

C’è una verità scomoda, che spesso accomuna chi si occupa, a vario titolo, di cultura: si pretende dagli intellettuali la libertà e la sua diffusione, pur temendola profondamente. Si pretende che rendano liberi gli altri, ma nessuno vuole rinunciare alla propria prigione dorata, come la capinera del Verga, che non fugge dalla gabbia aperta.

È naturale che gli intellettuali portino con sé una certa consapevolezza; ma la consapevolezza ha un costo, che quasi nessuno è disposto a pagare. È il costo di leggere, informarsi, astenersi dalle curiosità morbose, evitare l'indifferenza facile, coltivare interesse reale. Avere cura della propria solitudine, così come delle altrui socialità.

Per di più, nessuna di queste cose è necessaria; anzi. La società, oggi più che mai, premia chi si sgrava dalle zavorre. E cosa sono queste zavorre, in fondo, se non i colori dell’iride? Gli inenarrabili colori di fronte ai quali alza bandiera bianca perfino la raffinata prosa di Gide, che nella Sinfonia pastorale lamentava essere l’unico aspetto davvero inenarrabile, in un mondo di forme condivise.

I colori se ne vanno. Nessuno vuole però una città in bianco e nero, così li si richiama indietro, alle armi, come tanti soldatini. Ma nel frattempo i colori si sono dispersi: non rispondono più agli ordini e dipingono altrove. Non se ne stanno lì, ingrigiti dal tempo. Ma prima o poi i colori tornano. Non tornano da soli, qualcuno li porta. Chi?

Allora si mette in croce chi li ha portati o, se gli va bene, lo si accompagna alle mura; e si è da capo: in bianco e nero, e vogliamo i colori.

Quale libertà chiediamo davvero agli intellettuali? Libertà, o piuttosto un sacrificio funzionale? Essere liberi nelle torri d’avorio (che non pagano stipendi) o incarcerati simbolicamente nella funzione sociale? Nei paesi democratici, la carcerazione è solo virtuale. In certe parti del mondo, neppure poche, il carcere diventa anche fisico.

A ogni buon conto, non si sta bene, e si consuma il tempo di una vita a combattere contro chi vuole, non vuole, rivuole, eccetera. Ma il reato, l’esilio, la carcerazione, qual è? Forse, aver cercato una libertà che altri fingevano di volere.

E in effetti è un po’ il destino di chi si occupa di cultura, quando si accorge che le persone che si emozionano languidamente sono generalmente le stesse che vogliono mettere una distanza fra i propri desideri e quelle manifestazioni che ritengono utili a una proiezione di sé. I più scafati tengono per sé la parte mondana; a riflettere sulle arti ci mandano l’ombra, che comunque li segue… quindi non costa nulla, e poi è un po’ nostalgica e ombrosa di natura, per cui forse le piacerà.

L’intellettuale, in città, prende corpo nello spazio delle ombre, il che è già sospetto; con un’aggravante: confonde i finti desideri di una città che si vuole mostrare attenta con l’obbligo di una vera attenzione, molto più impegnativa.

Cosa si diceva delle zavorre? La città non le vuole. Ora, a ben vedere, la leggerezza non dovrebbe essere considerata una zavorra, anzi! Ma poiché per raggiungerla il terreno è tortuoso, meglio liberarsi anche di quella, e fare a meno delle filosofie di liberazione; tanto più che qualche guru di passaggio si trova, in palestra, pure a rate.

Rimane una minoranza di persone, portatrice — per così dire — sana, di idee che non si possono mettere a tacere. Possibile venire portati alle mura; possibile allontanarsi dalla città. Possibile, dopo il vento, dopo il deserto, dopo i laghi, voltarsi a guardare. Possibile che osservare la città significhi osservare la città decrepita. Dove il «decrepito» non è ciò che si osserva o si riconosce. È lì… comunque. Che lo si riconosca o meno, quella oltre le mura è la città.

Una bruma leggera si stende sul paesaggio. Ciò che pareva essere colore si trasforma in una tinta sempre più monocromatica; domina, ovunque, un grigio-azzurro che… (il pensiero si interrompe). È un male? È una tonalità nostalgica; a volerla cercare in profondità, non è neanche brutta. Però bisogna scendere ancora, camminare al di sotto dei colori; sentire il desiderio e la ferita di un ritorno; accettare la nostalgia.

Chi fin dal principio ha rifiutato i colori, come farà a trovare un passaggio? Ma è poi così necessario dirgli che esiste, quel passaggio? Insistere ancora, convincere quegli stessi che prima hanno costruito le mura e poi le hanno usate per rimanere soli, in un mondo senza porte? Qualcuno avrà voglia di parlare anche con loro, altri proseguiranno altrove il cammino.

Però ho il sospetto che la questione non si giochi tra chi parla o chi tace davvero, tra chi resta e chi va. Spaventa, piuttosto, l’immensità di chi, credendo di parlare, tace; di chi, credendo di vivere, accusa; e di chi, credendosi profondo, semplicemente sprofonda. E porta gli altri con sé, nel buio.

E porta gli altri con sé, nel buio.