Alcune stime riferiscono che la peste nera del Trecento contagiò 80 per cento della popolazione europea e ne portò alla tomba quasi un terzo. Oggi esiste un virus molto più letale, che non fa prigionieri e non risparmia nessuno: il Narcisismo. Tutti infetti, chi più, chi meno. Anche la sottoscritta non è immune alla nostra malattia: anche se nella lingua italiana il soggetto non deve essere per forza espresso, ci tengo a iniziare una frase con io, in maiuscolo pure. Non ho l’ambizione di parlare del narcisismo in generale ma di stringere il focus su una determinata categoria che del narcisismo ha fatto un business. Non sto alludendo ai gestori di palestre e nemmeno ai venditori di diete miracolose, sto parlando invece di alcuni editori a pagamento. Pubblicare un libro è la risposta a tanti mali dell’umanità. Noia, frustrazione, apatia? Uscirne è facile, ragazzi! Per rispolverare la propria autostima basta brandire un volumetto con il proprio nome in copertina e sbandierarlo sui social a più non posso. Pensate ciò che volete di me, MA SONO UNO SCRITTORE, IO! E qui voglio fermarmi a fare una dovuta precisazione: non c’è niente di male nel sentire il desiderio di scrivere e, successivamente, di dare alle stampe il parto del proprio ingegno. Quella che trovo malsana è la motivazione che sta alla base di molte finte vocazioni letterarie: non scrivo perché mi piace farlo, ma perché fa figo pubblicare e dire in giro che si è scrittori. Mi è stato chiesto più di una volta Come faccio a trovare un editore? e quando facevo qualche domanda per inquadrare meglio la situazione scoprivo che il mio interlocutore non aveva ancora messo nero su bianco una sola sillaba (però aveva tutto in testa, eh!). La loro preoccupazione era volta al prodottino finale da rifilare a malcapitati amici e parenti, non al romanzo? racconto? poema? in sé. È davvero sconfortante, ho come il sentore che per molti digitare frasi sul computer sia paragonabile a spaccare pietre sotto il solleone. E allora perché lo fanno, visto che nessuno li obbliga? Facile rispondere: per la prospettiva (illusoria ed egotista) di fama futura! Editori print on demand Ma veniamo all’argomento caldo: questa valanga di aspiranti scrittori dove va a finire? Pochissimi di loro riescono ad approdare sulle ambitissime spiagge degli editori, diciamo così, vecchia maniera, quelli, per intenderci, che valutano i testi prima di pubblicarli - categoria sempre più rara - tutti gli altri, una vera slavina di narcisismo che rotola verso valle, vanno a suonare il campanello agli editori che potremmo definire print on demand. Ce ne sono di ogni tipo e non voglio entrare nel merito né bersagliare qualcuno in particolare perché il mio scopo (riformulo: la mia illusione) è quello di aprire gli occhi agli autori, non di tirare le orecchie agli editori. Certo viene il sospetto (chiamiamolo sospetto) che l’unico scopo di questo genere di case editrici sia quello di far soldi: come il salumiere vende salami, loro smerciano ego. E il servizio va pagato in anticipo, come nelle case di piacere di inizio Novecento. Proposte (editoriali) indecenti E qui concedetemi un sapido aneddoto autobiografico: stavo facendo lezione di fronte a una nutrita platea di studenti, quando il mio cellulare ha preso a suonare. Sul display un numero non registrato. Una chiamata. Due. Tre. Sette… mi fiondo fuori dall’aula e rispondo pensando che sia successo un cataclisma. Invece era solo l’impiegata di una di quelle casi editrici che mi voleva fare una “proposta editoriale”, ovvero: io sganciavo un mucchio di soldi e loro mi stampavano 100 copie di un mio libro. Risposi che, se fossi stata interessata a un servizio di tipografia, sarei andata nella copisteria dell’Università al pian terreno dove i prezzi erano calmierati per legge. Mi avevano chiamata perché avevo mandato una mia raccolta poetica a una casa editrice senza fare le dovute verifiche. E anche qui voglio precisare: ciò che mi aveva indispettita (a parte le sette telefonate di seguito) non era la proposta in sé, ma il fatto che questa fosse stata paludata con frasi tipo abbiamo davvero apprezzato il suo lavoro… crediamo sia una silloge di grande valore… mi sono emozionata leggendola… bla bla bla… complimenti che, ça va sans dire, vengono sciorinati a tutti pur di vendere il pacchetto completo. Girava anche la leggenda metropolitana che un burlone avesse mandato a una di quelle case editrici un file con sopra scritto per 130 pagine il mattino ha l’oro in bocca (sempre in onore di King e, un po’, di Kubrick) e che lo avessero comunque richiamato dopo qualche giorno per magnificare il suo stile e fare una proposta di collaborazione (cioè: tu metti la fresca e noi la carta). Forse è inventata, ma io ci credo lo stesso perché, quando avevano cercato di sbertucciarmi, m’era parso che non avessero letto nemmeno mezzo verso del mio canzoniere. I più furbi si premureranno di aprire almeno il documento word per dare una scorsa al lavoro (e magari sincerarsi dell’assenza di bestemmie o altre oscenità), ma molti probabilmente si sentono così impuniti da permettersi di contattare il malcapitato autore senza nemmeno scaricare l’allegato. Sono sciacalli dal fiuto sopraffino, capaci di intercettare il cliente perfetto per loro, quello che non sopporta i rifiuti oppure ne ha davvero ricevuti troppi. A nessuno piace prendere porte in faccia, ma il segreto (magari) è quello di non farsi troppe illusioni e lasciarsi cullare dalla piacevole speranza di essere visti, prima o poi, da un direttore editoriale serio. Qualche democristiano potrebbe azzardare una frase consolatoria tipo I ‘no’ fanno crescere. Non ne sono così convinta ma sono certa del fatto che naufragare lungo i lidi di quelle case editrici sia come bere surrogato al posto del caffè. Tanto vale, veramente, andare in cartoleria e farsi stampare un manipolo di copie da distribuire a chi può apprezzarci (o deve almeno fare finta). Insomma, il Vanity Business, quella fruttuosa branca dell’economia che guadagna sull’insicurezza, sulle manie di grandezza e sull’egocentrismo delle masse, non mi piace per niente – non so se si è capito – e invito tutti quelli che hanno avuto la pazienza di leggermi fino a qui a riflettere su questo tema. Troppo spesso, quando vesto i panni della sagace polemista al bar o in qualche parco della sventurata città in cui mi tocca vivere (una delle metropoli con maggior tasso di aspiranti scrittori al mondo), sento i miei interlocutori ribattermi Ma cosa c’è di sbagliato? Non fanno male a nessuno. Siamo sicuri? Non fanno male alle persone, nel senso di singoli individui (che io sappia non ci sono a piede libero editori che vanno ad assassinare/rapire/mutilare ecc. i loro clienti), ma forse alla cultura un pochino di male lo fanno. Eccome!
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