Per un pregiudizio insano e duro a morire l’ozio viene scambiato troppo spesso per “l’opposto del lavoro”: il rifugio degli scansafatiche, insomma il trionfo del dolce far niente. Nulla di più falso. L’ozio autentico, al contrario, è decisamente “indaffarato”. Si concentra però rigorosamente su attività diverse dagli uffici quotidiani, lontano dal mestiere principale. Più o meno “fondato” dai Greci e poi ampiamente teorizzato dai Romani, l’otium si contrappone al negotium non per una scelta di fannullaggine ma per una sacrosanta necessità di svago operoso dedicato a pratiche alternative agli affari o all’incarico prevalente: dunque lo studio, i viaggi, le passioni, rustiche o cittadine, le attività ludiche e sportive, i piaceri della gola e della carne, il benessere dell’anima, il libero sfogo ai propri interessi in alternativa all’impegno e in puro spirito di libertà e di serendipity. Preferite le pantofole e il sofà a un concerto o a una visita d’arte? Nulla di più comprensibile ma difficilmente la vostra mente e il vostro corpo riusciranno a stare perfettamente immobili nel giaciglio che avete eletto a luogo del meritato riposo. Allungherete la mano verso un libro, controllerete i messaggi degli amici sul telefono, sognerete, pigerete un tasto sul telecomando per ascoltare un po’ di musica, guarderete una serie televisiva o navigherete in rete con o senza l’ausilio di qualche intelligenza artificiale. Senza impegno, beninteso, ma senza mai smettere di cercare qualcosa nel mondo che vi circonda. Certo in origine l’ozio risulta anzitutto una forma di fuga aristocratica e, diciamo pure, con scarsa possibilità di presa presso i ceti meno abbienti e i molti uomini in schiavitù. Ma l’ozio è in realtà la condizione imprescindibile per riuscire con successo in qualsiasi lavoro e a qualunque livello sociale. Se Seneca ne faceva una virtù stoica di armonia con la natura, Cicerone andava oltre sostenendo che nutrisse la dignità della persona e contribuisse alla stabilità del vivere civile. In fondo l’idea è quella di una pausa di rigenerazione senza cui il lavoro non può “rendere libero” nessuno (per citare l’infausto motto che accoglieva i deportati nei campi di concentramento nazisti). In un mondo di workhaloic dove il lavoro ci insegue oltre gli orari d’ufficio grazie al telefono, alla posta elettronica e alle chat più o meno virtuali, riappropriarsi dei propri spazi diventa obiettivamente salvifico. E l’emergenza riguarda in particolare le nuove generazioni assillate dall’invadenza del mondo iperconnesso e dalla dittatura dei social network che le priva di ogni possibile esperienza di sanissima noia. Ne ha scritto diffusamente e con saggezza il sociologo Domenico De Masi: “Viviamo in una società dove ci insegnano a essere solo produttivi e non abbiamo un’educazione al tempo libero. Dobbiamo prendere atto del fatto che il lavoro non è tutto, che il progresso tecnologico ci fornisce infinite protesi con cui arricchire il nostro corpo di sensazioni e funzioni. Imparare ad arricchire le nostre ore mischiando il lavoro con lo studio e con il gioco in quel mix sublime che io chiamo ozio creativo”. Non è però una conquista pacifica in un mondo che ha vissuto a lungo l’influenza del cristianesimo che predica l’inevitabilità della sofferenza terrena e guarda con sospetto ai piaceri della vita. Per questo va accolto con gratitudine il filone di pensiero filo-ozioso che si è andato affermando tra Otto e Novecento. Tra i suoi corifei spicca l’umorista inglese Jerome K. Jerome, editor della rivista The Idler e autore di un caposaldo del genere: I pensieri oziosi di un ozioso. “La pigrizia è sempre stato il mio cavallo di battaglia - ha scritto - è un dono di natura. Sono in pochi a possederlo. C’è una gran quantità di pigri, ci sono mascalzoni a bizzeffe, ma un ozioso genuino è una rarità. Non è il tipo che se ne va in giro con le mani in tasca. Al contrario, la sua più sorprendente caratteristica sta nel fatto che è sempre vorticosamente indaffarato. Perché è impossibile godere della pigrizia fino in fondo se non si ha parecchio lavoro da compiere”. Pigrizia laboriosa Insomma nulla a che vedere per intenderci con l’incarnazione letteraria della pigrizia, l’Oblomov di Ivan Goncharov, ritratto dell’indolenza e del vizio di un giovane rentier russo sopraffatto dall’apatia, e programmaticamente incapace di reagire alla decadenza ma ancor prima di passare dall’idea all’azione. Oblomov è una sorta di accidioso invertebrato incatenato tra sogno e realtà al suo polveroso divano in mezzo a ragnatele e libri ingialliti. Ma il suo non è ozio, appunto, piuttosto accidia. Non è forse vero ozio d’altronde neanche l’idealismo atarassico della comunione con la natura cui inneggia Jean-Jacques Rousseau nelle Fantasticherie di un passeggiatore solitario come via preferenziale per la vera felicità. Più pungente e azzeccato sembra il punto di vista del letterato britannico Samuel Johnson che, a testimonianza di una vigorosa tradizione anglosassone sul tema, pubblicò tra il 1758 e il 1750 un centinaio di brevi saggi sull’ozio (poi raccolti in The Idler). E che, ritraendo anzitutto se stesso, scriveva: “Il Fannullone è per sua natura un criticone; quelli che non fanno nulla da sé, pensano che ogni cosa sia facilmente realizzabile, e criminalizzano tutti quelli che falliscono in un’azione”. Ma per intendersi secondo Johnson occorre anzitutto partire da un teorema fondativo: “Colui che non abbia mai lavorato potrà conoscere i fastidi derivanti dal non far niente, ma certamente non il piacere”. Per farsi un’idea delle due opposte correnti in campo vale la pena di leggere il delizioso e autobiografico Pigro viaggio di due apprendisti oziosi di Wilkie Collins e Charles Dickens che inizia così: “Nel mese di settembre due oziosi apprendisti, esausti per la lunga estate e il torrido lavoro, fuggirono abbandonando il posto. Non avevano intenzione di andare in nessun luogo particolare. Volevano soltanto stare in ozio”. Ma i due ben rappresentano appunto due distinti schieramenti: “Quella di Francis Goodchild era una pigrizia laboriosa, si sarebbe addossato qualunque fatica pur di esser certo di oziare. Thomas Idle invece era un ozioso passivo, del tipo irlandese o napoletano purosangue che razzolava come avrebbe predicato se non fosse stato troppo pigro per predicare”. Opera seminale sull’argomento - sempre in lingua inglese non a caso - è L’apologia dell’ozio di Robert Louis Stevenson, un invito travolgente a rifiutare ogni presunta etica del lavoro e abbracciare i semplici piaceri della vita come bere, mangiare e vivere all’aria aperta. Si è spinto oltre Bertrand Russell redigendo un vero e proprio Elogio dell’ozio in cui spiega perché il lavoro non può essere l’unico scopo della vita umana mentre lo è, non casualmente, per ideologie come il fascismo e il comunismo. Per il Premio Nobel molti grandi progressi nella storia dell’uomo sono stati possibili proprio grazie al “sapere inutile” e al tempo libero (per non parlare dei possibili vantaggi in termini di tendenza alla pace tra gli esseri umani). Difficile non far niente Ma se non fosse sufficientemente chiaro ben venga il passo successivo, la teorizzazione e la rivendicazione di un Diritto all’ozio come quello propugnato a metà Ottocento da Paul Lafargue, rivoluzionario di origini creole, nemico del capitalismo e del suo culto per il lavoro “alienante” ma anche del clero e della sua predicazione sull’inevitabilità di una vita lastricata di sofferenze. Lafargue sposò una figlia di Karl Marx, Laura, ma non condivideva gli eccessi del determinismo economico del pensatore socialista. E non è un caso forse che abbia avuto più successo con il suo occasionale libello satirico che con il suo effettivo mestiere di rivoluzionario. Gli va concesso tra l’altro di essere stato un vero e proprio antesignano della “decrescita felice” in piena rivoluzione industriale. Un esempio concreto di vita dedita all’ozio si ritrova in molti uomini di lettere e di scienza, come ricorda Tom Hodgkinson nel suo L’Ozio come stile di vita: basterebbe seguire gesta e propositi di Cartesio, Whitman, Chesterton, Thoreau e molti altri. Oscar Wilde sosteneva che “non fare assolutamente nulla è la cosa più difficile al mondo”. E Friedrich Nietzsche se la prendeva con il lavoro che “porta sempre più dalla sua parte la buona coscienza: il desiderio di divertimento prende il nome di ‘bisogno di svago’ e arriva perfino a vergognarsi di se stesso. «Lo facciamo per la nostra salute» dicono le persone sorprese a fare un picnic.” In questo senso noi occidentali potremmo aver qualcosa da imparare dalla tradizione orientale. Ne era convinto Herman Hesse, autore di un celebre scritto sull’Arte dell’ozio: “Quanto più la prepotente attività industriale priva di gusto e di tradizione ha assimilato anche il lavoro intellettuale inculcandoci l’ideale di uno sforzo coatto, tanto più l’arte dell’ozio è andata in rovina… Nel mondo occidentale l’ozio elevato all’arte è stato praticato solo da innocui dilettanti.” Non è un caso in effetti che in Cina già nel terzo secolo avanti Cristo un maestro del taoismo come Zhuang Zhou affermasse che “chi non sa usare il tempo libero ha più lavoro di quando c’è lavoro nel lavoro”. Ma in fondo perché darsi tanto da fare intorno al concetto di ozio? Come cantano gli Oasis in The importance of being idle, “che importa finché c’è un letto sotto le stelle che brillano”?
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