Così Renzo Chiesa ferma la storia

Anna Maria Turra

L’intervista al fotografo in occasione dell'uscita del nuovo film sulla sua vita, è il risultato di conversazioni divaganti su di un tempo che si chiuderà o che si sta già chiudendo alle nostre spalle: quello della fotografia analogica. Si attiene ai fatti Renzo Chiesa, il fotografo e ritrattista che smonta la stereotipia di un lavoro affascinante e duro. Ne sa parlare a 70 anni come ne parlerebbe quel ragazzo che a soli 17 anni fotografava Jimi Hendrix al Piper di Milano

È nello stesso modo scanzonato che incontra Faber, il De André, scomparso nel 1999 lasciandoci da interpretare ancora molti pezzi d’esistenza tra canzoni e nostalgie di lui che restano vive, impresse sulla terra di Sardegna. 

Renzo Chiesa Chiesa Renzo, per la regia di Paolo Boriani, è un documentario che indaga i cinquant’anni di fotografie di un maestro che ha immortalato alcuni dei più grandi artisti della storia della musica mondiale: da Jimi Hendrix ai Rolling Stones, da Bob Marley a Frank Zappa, passando per Miles Davis, Nina Simone e molti altri. Il film, prodotto da Bloom Media House, è un’opera che scandaglia attraverso le foto anche la vita, la frammenta in epoche e mode. In facce.
Tra i molti ritratti di musicisti, colti per lo più da giovani e sulla scena, ricordiamo Lucio Dalla con uno scatto che il cantautore nel 1980 scelse per la copertina dell’album Dalla: cuffia di lana lavorata a maglia grossa sopra cui stanno gli occhialini tondi e sotto lo sguardo del cantautore rivolto al cielo. Oggi troviamo come un logo questa foto stampata un po’ ovunque, su magliette e mug, ed è certamente questo lo shoot che riconduce alla firma di Renzo Chiesa, il che lo fa sentire, per certi versi, ingabbiato nella parte del “fotografo dei musicisti”. Ma quando è accaduto che una professione straordinaria e stravagante si sia potuta trasformare in qualcosa di simile a un limite? «Difficile dare una linea di confine temporale. Nasco come ritrattista per Rizzoli e Mondadori. Quello che so di saper fare è fermare una storia. Poi lavorando per riviste come Amica, Max, Il Piacere o Case Country mi sono allenato ad inventare vere e proprie strutture di viaggio, ho scoperto posti sconosciuti e plasmato una vita che spesso si sovrappone al divertimento, all’inedito il che ha reso possibile un adeguamento a diverse linee editoriali. Per questo penso che fotografare gli addetti alla musica sia solo una parte di me, non sono io».

Intanto di Patti Smith dà la definizione di creatura solitaria e incline all’oblio, mentre in uno scatto imperioso ne certifica la portata, decreta il carisma che da una foto sembra riuscire a far uscire il suono di People Have The Power.

Perché niente è più trasformante del fatto di aver dedicato la propria attenzione alle diverse personalità, alle rispettive categorie dello spirito e della carne. 

A Malpensa, nello spazio Sheraton al terminal 1, lo sguardo di miti del calibro di Mick Jagger ha accolto visitatori-viaggiatori nella sua recente mostra curata da Chiara Alberghina e Luciano Bolzoni. «Lo scatto di De André risale al 1979: siamo al Palalido di Milano. È una foto che lo ritrae proprio al termine delle prove, amava circondarsi di amici e colleghi selezionati. Lavorava di notte ed era capace di cercare per giorni interi la parola che esprimesse esattamente quel che lui intendeva». Eppure ciò che di lui più ha catturato l’obiettivo di Chiesa è il lato silenzioso, celato. «Posso dire di conoscere pochissimo Fabrizio De Andrè, ma posso dire invece di sapere molto dell’uomo che ho fermato in quell’immagine, di quel che è accaduto a lui e a me, perché è così: qualcosa accade. Un buono scatto è il risultato di una costruzione che si fa in due. Che lui fosse un musicista è un dettaglio».  

Se è vero che del cantautore ne parla il mondo non solo musicale e che non c’è molto da aggiungere ai quarant’anni di attività artistica, quattordici album in studio, alle canzoni pubblicate solo come singoli e poi riedite in antologie, è vero anche che per Chiesa quella che De André riusciva ad esercitare sul mondo esterno, era un’attrazione involontaria. Quasi suo malgrado. «Fabrizio era in tournée con la PFM. Durante le prove entrai e attesi il mio momento. Vedendolo scendere dal palco mi avvicinai con un misto di ammirazione e soggezione. La scenografia era minimalista, le sedie vuote facevano da perfetto contrasto grafico con la figura di Fabrizio, seduto in prima fila. In pochi scatti rimase attento e concentrato, accennò anche un sorriso. In pochi minuti avevo la mia foto. Mi salutò accendendosi una sigaretta».

 

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