«Una nazione è fatta dai ritornelli che sceglie di canticchiare all’infinito» ha detto lo scrittore Tiziano Scarpa. La tesi del critico musicale Michele Monina è molto più lapidaria: «La musica pop è lo specchio di una società e una società in crisi non può che avere una musica di merda». E viene voglia di dargli ragione. Merda o no, una cosa è chiara: nel mondo artistico, quindi non solo nella musica, non c’è più posto per l’alternativa, per le voci dissonanti dal mainstream. Sono sempre di più quelli che cercano di intraprendere una carriera artistica con l’unico obiettivo: guadagnare, diventare famoso, spaccare il mercato. Una volta il mondo alternativo, fatto di live club, di centri sociali attivi, di circoli culturali, di strutture spontanee, rappresentava non solo un rifugio dove potersi esprimere liberamente, ma una scuola dove imparare, fare la gavetta, acquisire esperienza. Era l’unica realtà che riusciva a contrastare quel mondo fatto di “forzati” sold out, di investimenti di decine di migliaia di euro in comunicazione, di finanziamenti statali, di arti svendute o opere inquinate a colpi di product placement. Oggi sembra esistere solo la possibilità di fruire la cultura in streaming o sulle piattaforme televisive, un monopolio che ha finito per far scomparire le poche occasioni alternative che gli artisti avevano per affacciarsi sul mercato. E così, se non vieni preso da una major, se non vieni ingaggiato da un’agenzia, difficilmente esisti o resisti. Siamo tornati indietro di cinquant’anni, siamo in un mondo dominato da monitor (se prima era costituito solo dalla tv ora sono entrati di prepotenza quelli di computer e smartphone). E tutti si lamentano, e tutti - a parole - vogliono cambiare il sistema; gli stessi che appena si presenta l’occasione sgomitano per partecipare a un talent, appena un produttore li degna di uno sguardo non esitano ad aprire pagine social che riempiono di fuffa commerciale e catapultarsi dentro Spotify o YouTube, mantra per un’intera generazione che non sa ascoltare un disco nella sua interezza. E davanti a una realtà come questa non si può che essere sconfortati. Il grande imbroglio di questi anni è stato fingere che fosse cool essere pop, che dovevi essere leggero, facile, che dovevi farti capire da tutti perché si poteva comunque dire qualcosa di profondo pur realizzando opere di successo, pur andando incontro al “grande pubblico”. Perché alla fine sarebbe cambiato il pubblico, non gli artisti. Era questo che gli artisti underground si sentivano ripetere. Qualcuno c’è cascato e ha cambiato pelle e così l’espressione artistica del disagio generazionale - soprattutto quella post-pandemia - è stata diluita per poi sparire nel mainstream dimostrando la pochezza artistica di quasi tutti i convertiti. Non stiamo vivendo un bel periodo per quanto riguarda la cultura, di originale nasce veramente poco e quel poco che vale fa fatica a emergere. Agli artisti non viene lasciato il tempo per maturare: le opere – siano esse canzoni, film, spettacoli, performance, libri – hanno poche settimane a disposizione per farsi conoscere, poi vengono messe da parte. Ti dicono sempre che l’obiettivo da raggiungere è vendere e non provare a creare qualcosa che abbia il benché minimo valore artistico, che possa resistere al tempo, che voglia dire qualcosa. Questo fa sì che quel circuito che cerca di opporsi alla cultura usa-e-getta sia in via di estinzione. Un circuito off che va protetto, perché altrimenti gli artisti alternativi o si compromettono al mercato, andando via via banalizzandosi e omologandosi, oppure spariscono. In Italia, ma non solo, c’è un deserto artistico e culturale e Re Nudo lo sostiene da tempo. Siamo uno dei pochi controcanti, perché tutti – critici, manager, agenti, produttori, anche gli artisti stessi – fanno come niente fosse. Anzi, celebrano questo periodo, sorridendo gioiosi e gaudenti, perché non conviene a nessuno parlare male di nessuno. Altrimenti perdi anche quel poco lavoro che ti resta. È il Decadentismo. Aspettiamo il Rinascimento.
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