La società dell'alienazione e le profezie di Marx

Davide Castellazzi

Una delle perole chiave per comprendere il nostro tempo è alienazione.
Già il genio di Karl Marx aveva anticipato la totale disfatta dell’individualità umana a favore dell’efficacia perfetta delle macchine (dove per macchine si intendono automobili, computers, cellulari, tablets, insomma qualsiasi genere di dispositivo elettronico e o meccanico) due secoli fa.
Oggi, nel XXI secolo, la profezia di Marx, così distopica ma così realistica, si è pienamente realizzata. Si è fatta realtà concreta, per meglio dire virtual-concreta, che di concreto e duraturo (basti pensare alle storielle che ognuno di noi fa su Instagram o Facebook, per carità di Dio belle e narcise, ma a scadenza limitata di ventiquattro ore) ha ben poco.
L’unico modo per non soccombere all’imperativo implicito cui siamo chiamati ogni giorno ad obbedire e accettare, giovani e anziani, donne e bambini, è essere realistici come lo fu Marx al tempo. E il realismo non è mai buono, o meglio, non porta buone notizie. Non ha l’aria del festaiolo, né tantomeno della caciara ipocrita dei talk shows per casalinghe vedove e rassegnate. E per casalinghi vedovi e rassegnati, lungi da me, per carità divina, discriminare questa narcolessi sociale in termini di sesso.
Il realismo su questo tema dell’alienazione, la quale, affidandoci alla definizione della Treccani, sulla sfumatura politico-economico che ci dà Marx di “estraniazione”, è necessario per tenere le nostre coscienze vigili. 
Attenzione: vigili, non distruttive.
Essere vigili cosa significa?
Significa non bere le stronzate propinateci dall’epoca pubblicitaria del tutto e subito e non ammansirci alla retorica delle oligarchie democratiche che ci governano, e con noi, in una spirale fisiologicamente indiretta e impersonale, i nostri desideri.
L’alienazione spegne il desiderio, lo manipola, rende l’uomo estraneo a se stesso nell’affacendarsi con le macchine. La macchina non ha emozioni, il suo comparto si esaurisce nell’efficienza, giammai nello scalpiticcio flebile e potente che può abitare in un uomo o una donna particolarmente creativi, ovvero sia, seguendo la scia di Freud, molto attaccati e attaccate al proprio io bambino, giocondo.
Scendiamo dai monti del pensare concettualmente e ispiriamoci al nostro quotidiano: siamo una società di alienati, farciti di cuffiette e cuffiotte, in grado di premere tasti velocemente e con una rapidità maniacale, ognuno catturato dalla propria macchinetta, ma in metropolitana, ad esempio, tra le altre, milanese, non parliamo. 
A Tokyo, dove c’è un governo, già per il solo fatto di essere orientale, più illuminato del nostro, è vietato l’utilizzo dei telefonini sui mezzi pubblici, tra cui la metropolitana. 
Questa idea geniale, che implicitamente invita i passeggeri lavoratori e o studenti a dialogare tra loro, a incuriosirsi a vicenda sulle proprie vite, per poi magari rivedersi il giorno dopo, magari non rivedersi mai più, o addirittura magari fidanzarsi o diventare buoni amici; noi, sorella d’ Italia, non l’abbiamo neanche presa in considerazione.
Non ci pensiamo proprio, perché è una norma. È così che è e così sarà per chi sa quanti altri anni in futuro.
Mi viene in mente, per non martellare troppo sul nostro Occidente in fase di sciagurato riarmo, che il signor Robert Allen Zimmerman, venuto in concerto da noi la scorsa estate, aveva vietato l’utilizzo dei cellulari al suo concerto. 
Evidentemente è possibile cambiare le cose, così piccole, tascabili, virtuali, solo con un po’ di volontà di potenza.
Per concludere, alienarsi vuol dire dar ragione alla macchina più che all’uomo preso in considerazione come inesauribile mistero vivente. Mai una macchina potrà darci ciò che un uomo è in grado di suscitare: scalpore, ammirazione, disgusto, pena, tenerezza, rabbia, stupore, sconcerto.
Queste sono tutte emozioni, che in un mondo alienato, è necessario ritrovare e gustare. A costo di spegnere il telefonino per una intera giornata.

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