Mark Fisher, comunista acido

Pietro Dazzi

A proposito della morte di David Foster Wallace, Stefano Bartezzaghi ha scritto che “in tanti ci si è chiesti quando sarà possibile tornare a leggere le sue opere senza pensarci, senza dare troppo peso ai presagi di cui ora sembrano pullulare, senza cioè proiettare all’esterno della scrittura quella raccolta di indizi che la sua scrittura stessa ci sollecita”: il genio della letteratura postmoderna americana si è suicidato a 46 anni. 

Aveva all’incirca la stessa età Mark Fisher quando, il 14 gennaio 2017, si è tolto la vita. Come per Foster Wallace, nemmeno quando si pensa a Fisher è semplice scindere la persona - e lo scrittore - dalle circostanze della morte. E forse è anche giusto così: lo stesso Fisher ha più volte insistito sul racconto del suo rapporto con la depressione - l’ha definita “lo spettro più malevolo che ha perseguitato la mia vita” - che ha pure reso una delle questioni fondamentali della sua critica politica.

Eppure, Mark Fisher è stato tante altre cose: critico musicale, filosofo, sociologo, blogger ante litteram. Soprattutto, la sua è stata una delle personalità più rappresentative nella storia della controcultura underground dei primi anni 2000. Quella di Fisher è insomma una figura complessa, attorno alla quale aleggia onnipresente lo spettro della depressione, ma capace insieme di rendersi portavoce di un intero mondo, quello del post-punk e dei circoli underground, fatti di critica al sistema e di volontà di immaginarne uno diverso, migliore.

Realismo Capitalista
Fisher è conosciuto soprattutto per Realismo Capitalista: è l’opera che ha reso celebre, insieme al filosofo inglese, anche l'aforisma - alternativamente attribuito a due tra i più importanti pensatori e teorici politici attuali, Slavoj Žižek e Fredric Jameson - secondo il quale "è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo". Tra gli altri, lo cita anche Marracash nel brano Loro: “riesco a immaginare più la fine del mondo, che la fine della differenza sociale”.

È un’analisi cruda e cosciente e insieme attualissima; capace, soprattutto, di parlare a tutti, cogliendo a piene mani dalla cultura pop: musica, letteratura, specialmente cinema (da Solaris e Blade Runner a Pulp Fiction e Scarface, fino al cartone Pixar Wall-E).
Ed è, anche, l’opera che rappresenta al meglio l’intensa e lucida critica alla realtà capitalista dell’inglese: una sorta di manifesto del Fisher-filosofo e sociologo (ed in particolare del Fisher-filosofo e sociologo anti, o meglio ancora post-capitalista).

Per realismo capitalista Fisher intende “la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l‘unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente”: una moderna declinazione del tranchant "there is no alternative" (al capitalismo, appunto) di Margaret Thatcher. Fisher risponde alla Iron Lady del neoliberismo studiando le contraddizioni del sistema: represse, ma a ben guardare assolutamente evidenti. Nascoste in piena vista, potremmo dire.
La prima è la catastrofe ambientale, che più che repressa ed inibita appare anzi ben dichiarata, per risolversi però semplicemente in uno strumento pubblicitario e di marketing. La questione ambientale diventa, cioè, qualcosa di cui il sistema si appropria, e da cui trae vantaggio. Una modalità che racconta appieno il realismo capitalista di cui ci parla Fisher: sì, la catastrofe ambientale c’è, esiste, ma il mercato vi troverà una soluzione. D’altra parte, non ci sono alternative! Era vero nel 2009, quando è stato per la prima volta pubblicato Realismo Capitalista, lo è ancora più oggi: se le proteste di Ultima Generazione e Fridays for Future vengono congedate con scherno o manifesta insofferenza quando non direttamente osteggiate e se la questione ambientale si risolve in slogan di imprese che ne fanno una pura e vuota questione d’immagine - greenwashing vi dice qualcosa? - è (anche) perché non sembriamo in grado di immaginare un’idea di sistema alternativo. 

La seconda è la burocrazia. Secondo Fisher “ad aver proliferato è una nuova burocrazia fatta di “obiettivi” e di “target”, di “mission” e di “risultati”, e questo nonostante tutta la retorica neoliberale sulla fine della gestione top-down. Il controllo centralizzato regna supremo”. Nonostante, cioè, la burocrazia venga raccontata come un simbolo dell’inefficienza delle economie pianificate e dello statalismo, in realtà essa è ancora ben presente negli ingranaggi del sistema capitalistico, a dimostrazione di come l’immagine che il capitalismo dà di sé sia molto diversa dal modo in cui funziona davvero.

Infine, c’è la salute mentale. La lista è lunga: depressione, ovviamente, ma anche dislessia, ansia, deficit di attenzione e iperattività, apatia, schizofrenia, sindrome bipolare. È un tema che gli è evidentemente caro: “anziché scaricare sugli individui la risoluzione dei loro problemi psicologici – dice – quello che dovremmo chiederci è: com’è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate? La “piaga della malattia mentale” che affligge le società capitaliste lascia intendere che, anziché essere l’unico sistema che funziona, il capitalismo sia innatamente disfunzionale”. Ma soprattutto, per Fisher la malattia mentale deve essere letta non solo nella sua natura chimico-biologica, ma anche come un fatto politico e sociale: “ripoliticizzare la malattia mentale è un compito urgente per qualsiasi sinistra che voglia lanciare una sfida al realismo capitalista”. 

Nel mondo sotterraneo
Se Realismo Capitalista lo ha reso un fenomeno di culto per un’enorme schiera di intellettuali e artisti - appartenenti a quella generazione per cui “il capitalismo semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile” - il mondo di appartenenza di Fisher rimarrà però sempre quello underground. A vederlo, non si direbbe esattamente il tipo cresciuto a pane e rave: camicia appena sbottonata, sguardo penetrante dietro agli occhiali squadrati, capelli brizzolati e scarmigliati. Più che un raver, ricorda un personaggio uscito da un film di David Lynch. Eppure, è qui che si forma la personalità, anche politica, di Fisher. 

Un’appartenenza al mondo sotterraneo techno e dance che sfocia nel militante con l’esperienza della CCRU (Cybernetic Culture Research Unit), che Valerio Mattioli ha splendidamente definito nella sua introduzione all’edizione italiana di Realismo Capitalista “un inclassificabile esperimento in cui far convivere Gilles Deleuze e musica techno, Lovecraft e teorie del caos, William Gibson e biologia molecolare, esoterismo “nero” e numerologia sotto MDMA, scrittura automatica e performance art inacidita”. Con lui, alla CCRU partecipa anche il producer Kode9, che fonderà poi l’etichetta discografica di musica elettronica Hyperdub. E a proposito di musica elettronica, nei primi anni Novanta Fisher è anche parte del gruppo techno D-Generation, con il quale incide il vinile Entropy in the UK. Si trova anche su YouTube, e dà una buona idea dell’universo musicale - psichedelico e sperimentale - attorno a cui ruota l’inglese.

Poi, soprattutto, nel 2003 dà vita al blog K-punk, con il quale prova a restituire qualcosa a quel mondo da cui ha tanto attinto. Mark Stewart, leader della band post-punk The Pop Group, tra le più influenti nel panorama britannico degli anni Ottanta, a tal proposito dirà “Mark Fisher cambierà la vostra vita come ha fatto con la mia. Una delle menti profetiche del nostro tempo, vi incoraggerà a impegnarvi ancora di più, a infuriarvi ancora di più". K-punk è l’ennesimo esperimento di Fisher, che nel blog unisce la critica politica alla cultura popolare, al cinema e alla musica. Parla dei The Fall e dei Joy Division di Ian Curtis, nei cui brani legge “un senso di futuro forcluso”: parla, cioè, delle avanguardie del punk rock e del post-punk di stampo anglosassone. Ma anche di Burial, la cui musica “è un vivido ritratto sonoro di una South London ferita, un dipinto semi astratto della delusione e delle angosce di una città”, di The Caretaker e di Goldie, e ancora di eMMplekz e Dolly Dolly (“due varianti sonore del surrealismo inglese del ventunesimo secolo”. Loro sì profondamente underground, date un’occhiata al numero di ascolti su Spotify): di elettronica e di jungle, di dubstep e di rave. E legge nel mutamento della “sua” musica, sempre più crepuscolare, sempre più malinconica e nostalgica, i segni di quell’ansia del futuro, di quella perdita di prospettive che racconterà in Realismo Capitalista. 

Il suo è un immaginario tra il cyberpunk e il cybergotico, distopico e postapocalittico, addirittura postumano. Si sente anche qui, notevole, l’influenza della CCRU e del suo cofondatore Nick Land, di cui Fisher scriverà in Realismo Capitalista “nei suoi testi negli anni Novanta, Land è riuscito a sintetizzare cibernetica, teoria della complessità, narrativa cyberpunk e neoliberismo, partorendo la visione di un Capitale come intelligenza artificiale planetaria: un sistema vasto, flessibile e infinitamente duttile che renderà il genere umano obsoleto”. Oltre che profondamente spaventoso, è un cosmo - questo di Fisher, di Land e della CCRU - particolarmente florido negli ambienti della cultura rave e dell’underground techno degli anni Novanta: condito di punk ed elettronica, sembra evocare il Doof Wagon di Mad Max.

Se, insomma, abbiamo definito Realismo Capitalista il manifesto del Fisher-filosofo, è forse meno semplice individuare un unico simulacro dell’anima underground dell’inglese. Tra punk, post-punk, musica elettronica e panorami postumani, è a dire il vero tutta la sua opera, ma anche tutta la sua esistenza, a raccontarci quanto egli fosse figlio di quel mondo - e quanto, insieme, quel mondo debba oggi a lui.

Comunismo acido
Dopotutto, nonostante il panorama desolante che ci racconta, la forza di Fisher resta quella di continuare a pensare - e credere - ad un’alternativa. E nemmeno deve essere un atto enorme come quello del suo suicidio a farci pensare altrimenti: lo abbiamo detto, Fisher è anche questo, ma non lo è soltanto. In effetti, già in Realismo Capitalista ci lascia con un’apertura all’avvenire: “la lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista significa che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre effetti sproporzionatamente grandi. Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile”. Un invito, insomma, a considerare quelle che ha individuato come le enormi contraddizioni del sistema - catastrofe ambientale, burocrazia, salute mentale - come un punto di partenza per immaginare un cambiamento. Ma, dato il punto di partenza, quello che ancora manca è una risposta coerente per poter superare un orizzonte del pensabile pienamente occupato da un metodo strettamente capitalista.

È solo alla fine che, in realtà, prova a costruire un’idea di futuro. Fisher cerca “a new humanity, a new seeing, a new thinking, a new loving”. Per trovarli, ancora una volta, si affida all’incontro delle due forze che lo animano, quella dell'intensa e lucida critica sociale e quella della personalità punk e underground. È proprio da quest’ultima che fa nascere il concetto di comunismo acido, che potremmo definire come una convergenza di coscienza di classe, autocoscienza socialista-femminista e coscienza psichedelica: “la cultura rave è stata l’ultimo esempio di cultura psichedelica popolare. Ho iniziato a pensare proprio a un “comunismo acido” - una fusione tra lo psichedelico e il militante. Le culture psichedeliche si concentrano sulla coscienza in un modo diverso ma potenzialmente complementare alle pratiche di autocoscienza politica”. Ha soltanto iniziato a pensarci, purtroppo ci ha lasciato prima di poter dar luce al suo progetto, di cui ci restano solo pochi estratti. 

Quello che ci resta è però la sua formula magica per superare il realismo capitalista. Gli ingredienti sono quei tre: coscienza di classe, coscienza psichedelica ed autocoscienza socialista-femminista. Per Fisher “è triste, catastroficamente triste, che la sinistra mainstream - sia socialdemocratica che marxista-leninista - non sia riuscita a connettersi con la politica libertaria e anti-lavoro implicita o vernacolare nelle culture psichedeliche”. Quello che serve è allora riappropriarsene, anche e soprattutto politicamente e a partire dal basso. Negli anni del Rinascimento Psichedelico, è Fisher a indicarci la strada. 

 

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