Cinematografie resistenti a Venezia

Stefano Laffi

A volte siamo schiacciati, lo scontro è impari e non c’è verso di raccontarsela con la storia di Davide contro Golia. Come si fa in quei casi? Chiediamolo al cinema, prendiamo alcuni dei film visti all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.

Eunice è la protagonista di I’m still here: siamo nel Brasile degli anni Settanta, ovvero un paese sotto dittatura militare, dove chi aiuta la resistenza comunista diventa un desaparecido, cioè viene sequestrato dalla polizia, torturato e gettato nell’oceano. Suo marito fa quella fine – ma qualcuno viene rilasciato e quindi si spera sempre che… - e lei insiste: chiama, chiede, raccoglie prove, fa testimoniare, non molla mai, finché, venti anni dopo, quando il regime cambia, ottiene giustizia. Ecco come si fa, un regime non lo sovverti, un marito scomparso non lo salvi, ma lotti comunque, a quel punto per la giustizia, ovvero per gli altri.

In To kill a mongolian horse il protagonista è Saina, un mandriano che vive nella prateria mongola, ma per lui è difficile restare, oppresso dai debiti di gioco del padre, dalla crisi climatica prima e dalla scoperta di risorse petrolifere che attirano gli interessi cinesi. Cosa fa Saina per opporsi? Si reinventa, usa le sue abilità per costruirsi una nuova vita: conosce i cavalli e sa cavalcarli come pochi, così diventa addestratore, poi organizza giri turistici nella steppa e si esibisce in spettacoli circensi in costume. Si arrangia, si adatta, insomma fa il possibile per salvare le cose. A volte è quella la strada, tenere un punto fermo e cambiare tutto il resto. Come diceva Camus chi si ribella non dice solo no a qualcuno o qualcosa, dice sì a ciò che risulta irrinunciabile, il segreto è proprio quello, isolare un nucleo vitale e combattere per quello. E per Saina è il legame coi cavalli, che infatti non vende pur nella penuria di soldi. Nell’impossibilità di conservare si può cambiare senza tradire, e non è meno coraggioso. 

L’assalto dei ricchi e potenti sulle risorse della terra è anche il tema di 2073, film che racconta un futuro distopico dove il mondo è diviso in due: in cima ai grattacieli vivono i ricchi, in salute, che mangiano verdure coltivate in serra ai piani alti e si circondano di opere d’arte. In basso c’è il popolo, costretto ad un’esistenza da topi, fra le macerie di un mondo semidistrutto, continuamente vigilati da droni che grazie all’AI riconoscono identità e intenzioni. Il film inizia con un messaggio della protagonista, che ci ammonisce sul fatto che un mondo così lo stiamo costruendo ora: lei vive in clandestinità e nasconde la sua identità, ecco la soluzione. Quando il potere si manifesta come tecnologia del controllo, nascondersi e seminare le proprie tracce è sabotare il sistema, che non si può sovvertire, non si può attaccare, ma si può eludere.

Con Le Mohican torniamo al presente e al racconto di un’altra resistenza di oggi, quella dei pastori Corsi. Qui l’assalto dei potenti si manifeste sulle terre costiere, perché la mafia vuole prendersi tutte le aree più turistiche per agire speculazioni immobiliari in aree teoricamente protetto. È interessante notare come basti guardare lo spazio per capire le relazioni di potere: ricchi e potenti stanno in cima ai grattacieli, hanno le ville sul mare, hanno la casa in centro, ecc. Joseph è un pastore di capre, l’ultimo ad aver resistito nella sua proprietà costiera senza retrocedere in montagna. Ma la mafia insiste, quella sua terra la pretende e inizia la caccia all’uomo, Joseph è in fuga. Ad aiutarlo sarà una giovane cugina e via via tutta la popolazione che solidarizza con lui, contro la mafia locale. Sono tre i canali che portano alla formazione della resistenza, e se dovessi pensare oggi come organizzare una resistenza partigiana penserei a quelli. La cugina lancia un hashtag e una campagna social, per smentire la versione della polizia locale, corrotta, che attribuisce quel che accade ad una lotta fra bande: un altro account risponde e via via si moltiplica il consenso, come un tam tam invisibile si sparge la voce. Il secondo canali sono stencil sui muri, cioè l’immagine stlizzata di Joseph diventa il simbolo della resistenza: quando compare la sua sagoma disegnata all’ingresso di un paese è come una nuova bandierina in quel territorio. Il terzo strumento di lotta è una canzone: la cugina improvvisamente in un locale sente che un gruppo musicale lancia un pezzo che tutti conoscono, cantano e ballano. Quel pezzo racconta del mohicano, ed è un grido di resistenza gioioso. Se i rapporti di forza in campo sono impari, a volte non puoi impedire le prevaricazioni materiali: così la riscossa passa da altro, dall’immaginario e dal simbolico, sposti lì la lotta e giochi con altri strumenti, e nuove alleanze. 

 

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