Si parla molto oggi di cinema indipendente che si può considerare la diretta manifestazione di un cambio vertiginoso vissuto dalle produzioni cinematografiche, soprattutto in vista di un’evoluzione delle tecnologie che, con costi sopportabili, permettono la realizzazione di notevoli prodotti cinematografici. Chiaramente questi non rientrano tra i film indipendenti, giacché hanno avuto alle spalle produzioni solide, ma possiamo definirli espressione di un momento della storia del cinema che ha costretto una riflessione, figlia di un humus culturale specifico Quando si parla di film indipendente si identifica un particolare modo di fare cinema che nasce negli anni Sessanta, trasversalmente negli Stati Uniti e in Europa, grazie alla diffusione di strumentazione tecnologica ancora a pellicola, ma ridotta (16mm al posto del troppo costoso 35mm) che consentiva l’allargamento del sistema produttivo. Un riferimento in questo campo è il gruppo di filmmaker New American Cinema, guidato dal poeta Jonas Mekas, che ha raccolto, in un archivio accessibile, tutte le produzioni di allora che erano distribuzione a mano dal collettivo. Fino ai primi anni Ottanta cinema indipendente era sinonimo di cinema underground e le sue due caratteristiche fondamentali erano: la totale libertà espressiva del regista, in termini tematici, linguistici ed estetici, il low budget e il conseguente non poter contare su un’importante struttura produttiva e distributiva. Spesso regista, produttore e distributore coincidevano nella stessa personale. Esemplificativo, da noi, Nanni Moretti con la bobina sotto il braccio nel suo film Io sono un autarchico [1976]. Mentre in Europa nascevano le nouvelle vogue, in America in breve tempo tale sensibilità ha subito un’opera di normalizzazione, di sistematizzazione, soprattutto in seguito alla nascita del Sundance Film Festival di Robert Redford nel 1978 con l’allora denominazione Utah/United States Film Festival (che manterrà fino al 1991). Piano piano il festival di Salt Lake City si converte in una vetrina che filtra prodotti di qualità, che possono poi accedere alla grande distribuzione. Per questo il Sundance sviluppa una sua estetica e imposta i binari della produzione lungo argini molto ben definiti: un certo tipo di fotografia, di attori, di location. Ciò ha portato inevitabilmente la nascita del genere indie, come costola della produzione mainstream. Tra i grandi emersi proprio da questo festival ricordiamo Gus Van Sant, i cui primi film - Mala Noche, Drugstore Cowboy, My own Private Idaho - sono l’espressione più pura del cinema indipendente, in quanto realizzati con poco budget, caratterizzati dalla massima libertà espressiva e costellati da attori e collaboratori scelti dal regista tra i suoi amici. Più di recente un caso per tutti Nomadland” [2020] scritto, diretto, co-prodotto e montato da Chloé Zhao che vince l’Oscar come Miglior Film. La spinta del digitale Accanto al Sundance, è bene ricordare un’altra realtà festivaliera di spicco, Tribeca Film Festival, fondato (tra gli altri) da Robert De Niro, con cui vengono valorizzati in particolare gli autori locali, fra cui Jim Jarmusch e Spike Lee. L’Italia non si lascia trovare impreparata e già a partire dagli anni Sessanta sforna filmmaker indipendenti. Tra questi Alfredo Leonardi che entra in contatto diretto con i colleghi del New American Cinema su cui ha scritto Occhio mio Dio [1971], primo libro italiano sull’argomento. Lo ricordiamo per la sua produzione - durata circa dieci anni - di documentari militanti in completa autonomia finanziaria: un titolo su tutti, Lotta di classe alla Fiat [1974] girato a Torino e co-diretto con Anna Lajolo e Guido Lombardi. Da qui tanti italiani possono definirsi espressione di questa sensibilità pur nelle grandi differenze dei loro traguardi cinematografici e nelle specificità dei loro stili. Ricordiamo Silvano Agosti, Tonino De Bernardi, Augusto Tretti e Gianni Amico. L’Italia fa caso a sé perché il sistema non è mai stato preparato a integrare questi autori: chi nasce indipendente, vi rimane senza avere la possibilità di affermarsi e professionalizzarsi. Volgendo lo sguardo verso lo status quo italiano attuale, si registra una numerosa produzione filmica esclusa dalla distribuzione commerciale, ma estremamente vitale. Pare che i film di genere - come l’horror - eccezion fatta per pochi casi, tra i quali Piove di Paolo Strippoli -, siano naturalmente indie. In questo contesto ci piace ricordare le produzioni di Lorenzo Bianchini, oggi considerato regista di culto. Inoltre è bene segnalare una zona grigia in cui convergono film che per tematica e libertà espressiva sarebbero indipendenti, ma che alla fine comunque hanno raggiunto il grande schermo e sono, per esempio, coprodotti da Rai Cinema. Esemplificativi sono Jeeg Robot e Freaks Out di Gabriele Mainetti, The end? L’inferno fuori di Daniele Misischia, Il metodo Kempinsky di Federico Salsano, Anime Nere di Gioacchino Criaco e L’ultimo sole della notte di Matteo Scarfò. Film Commission, un aiuto non per tutti Lo stato dell’arte della situazione produttiva in Italia è assai complesso da sintetizzare. Ciononostante è importante evidenziare che in mancanza di un sistema strutturato su più livelli, come ad esempio quello francese, a pagare lo scotto rimangono sempre i più piccoli. Dal punto di vista finanziario sembra fondamentale trovarsi in una regione con una Film Commission funzionante e imparare presto a lavorare saggiamente negli interstizi burocratici. Ad esempio la Regione Piemonte ogni anno mette a disposizione somme considerevoli con bandi, quali Doc Film Fund e Film TV Development Fund, dedicati alle produzioni locali indipendenti. Altrove, però, risulta praticamente impossibile ottenere fondi pubblici. Squilibri che non permettono di qualificare l’Italia fra le realtà nazionali virtuose, incapaci di concedere a tutti gli autori le stesse opportunità di emergere e produrre le proprie opere. Si è di fronte a diseguaglianze di accesso a fondi pubblici evidenti, dovute principalmente alle diverse sensibilità delle regioni. Non sempre l’azione delle realtà bancarie, attraverso le proprie fondazioni, riesce a colmare tali deficienze, giacché molto spesso i ritorni politici che si aspettano vanno ben oltre la qualità e l’originalità del progetto presentato. In fine, troppo spesso i bandi premiano tematiche specifiche, quali l’immigrazione, l’inclusione, le periferie urbane, il green, trascendendo la manifattura estetica e limitando la creatività del singolo. Nel complesso, comunque, il contesto underground è spesso caratterizzato da autori che autoproducono le proprie opere per poi, eventualmente, affidarsi ad altri per la loro diffusione. A questo scopo nell’ultimo ventennio si sono moltiplicate le società dedicate alla distribuzione indipendente, fra cui si è fatta notare la Premiere Film di Roberto De Feo, tramite le quali diventa possibile negoziare la selezione festivaliera o il passaggio del film in sale cinematografiche, soprattutto con le proiezioni eventi, e/o piattaforme streaming. D’altra parte, in questo senso, i canali televisivi rimangono appannaggio delle aziende di maggiore rilievo, e ciò obbliga il ristringimento del campo escludendo l’accesso ai soliti ignoti o a chi crede ancora nell’arte per l’arte. Da noi negli ultimi vent’anni si è assistito a una grande fioritura di festival più o meno ambiziosi che hanno dato e danno risalto al cinema indipendente. Vanno citati almeno le prime edizioni del Torino Film Festival, a cui si affiancano la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Bergamo Film Meeting e il Festival dei Popoli di Firenze. Oltre a questi, vi sono tante altre realtà più o meno piccole che monitorano la situazione artistica del cinema underground in un’ottica di ricerca. Tra questi annoveriamo il Filmmaker Festival di Milano (filmmakerfest.com) e il Torino Underground Cinefest (tucfest.com) e accanto a questi colossi si fa timidamente spazio il Life Beyond Life Film Festival (lifebeyondlife.net), un unicum mondiale a occuparsi della morte e delle visioni dell’Oltre che a fine marzo ha presentato la sua terza edizione con 40 film selezionati tra i 429 arrivati da tutto il mondo.
Nel 1997 esce l’inglese Full Monty, diretto da Peter Cattaneo. In 91 minuti si narra la storia di alcuni operai di Sheffield che, loro malgrado a spasso per i licenziamenti, si improvvisano spogliarellisti. Il film, con un budget stimato in 3,5 milioni di dollari ha incassato 257.938.649, ricevendo acclamazioni e riconoscimenti, tra cui un Premio Oscar. Quindi anche con capitali ridotti si poteva sfondare. Sono gli anni di Trainspotting [1996] di Danny Boyle e de Il teorema del delirio [1998] diretto da Darren Aronofsky a cui seguirà Requiem for a Dream [2000].
Sicuramente gli anni Novanta, con l’introduzione del digitale, incoraggeranno questa nuova via espressiva, portando all’estensione dal basso del sistema produttivo e di riflesso un grosso slancio nella ricerca di originalità e di linguaggi innovativi. L’occhio del regista viene catturato dalle periferie, dalle frontiere, dalle questioni sociali e dai problemi della gente comune, uscendo così dai cliché della narrazione tradizionale, dal mito dell’eroe, dalla tragedia amorosa e dall’esaltazione della bellezza. È proprio questa l’anima underground di tale cinema. Fra i primi europei a muoversi in questi anni e seguendo tale modus operandi, ricordiamo i francesi Gaspar Noè e Bruno Dumont.
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