Cosa ci fanno insieme uno dei più grandi autori del secondo Novecento e il producer più pazzo della scena elettronica italiana contemporanea? L’azzardo potrebbe sembrare dietro l’angolo. Tuttavia, credetemi se vi dico che i punti di contatto sono molti di più di quelli che possiate immaginare. La parola “festa” si ripete talmente tanto spesso nel romanzo pavesiano – almeno circa una trentina di volte – da poter avvicinare La bella estate (primo episodio della trilogia omonima nonché vincitore del Premio Strega nel 1950) dello scrittore piemontese al progetto musicale di un altro corregionale, Marco Jacopo Bianchi in arte Cosmo. L’ultima festa, rilasciato nella primavera del 2016, non solo è il secondo album del cantautore e dj di Ivrea classe ’82, ma si può senz’altro dire anche il suo manifesto poetico più intimo. Da fautore e partecipante in prima persona dei rave, dopo l’esordio con Disordine, L’ultima festa è la storia – certo dal sapore meno programmatico rispetto ai lavori più recenti – di una libertà a portata di tutti, tra beat, sudore, mani che si intrecciano, sensi disinibiti e, soprattutto, vicinanza di corpi e d’intenti. Otto brani per otto capitoli: se sette sono i giorni della settimana, allora l’ottavo è il giorno in più, quello che sfora dall’ordinario: Un lunedì di festa appunto. È, scomodando il filosofo francese Edgar Morin, il reale che eccede il razionale, è quel quid di mistero, di gioco, di inspiegabile e, se vogliamo, di speranza. È la vita che fuoriesce, che irrompe con tutta la sua forza intrinseca, forza che è in grado di sprigionare quando meno ce lo aspettiamo. In questa tracklist, infatti, c’è come il tentativo di farla durare ancora e ancora questa festa, di non farla mai finire, un po’ come il quindicesimo verso leopardiano aggiunto al rigido schema del sonetto - “E il naufragar m’è dolce in questo mare” - forse già pioniere assoluto della trasgressione. L’ultima festa è più di un sogno lucido, è un’estasi colorata – anche il videoclip girato durante il Carnevale di Ivrea lo dimostra – e condivisa, tra arance spappolate e vestiti fradici di pioggia. La festa supera l’evento in sé e diventa un simbolo, si trasforma in uno spazio-tempo franco dove azzerare ogni catena logico-razionale e lasciarsi andare. Dove seguire un flusso di inarrestabile follia, quel “semel in anno licet insanire” a cui già Seneca e Orazio inneggiavano. Dove il ballo diventa un altro modo di stare al mondo – come canta anche ne L’altro mondo – pur restando dentro al mondo e, dunque, un viaggio alternativo più che evasivo, reso possibile attraverso frequenze e dimensioni soltanto in apparenza obliate dalla routine. «In testa ho una vacanza\ una festa\ una tempesta». È così che il rito della festa in tutte le sue declinazioni, compresi i rave, incontra il mito della festa raccontato nell’incipit de La bella estate di Pavese: «A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte sparavamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, - dicevano, - siete ragazze, non avete pensieri, si capisce -. Eppure una di loro, quella Tina ch’era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria». La giovane protagonista Ginia incarna perfettamente l’ingenuità della festa, il suo essere insieme atemporale e fisica, luogo dove perdersi e ritrovarsi, senza giudizio, senza limitazione né prevaricazione alcune. Pavese la associa ad una stagione in particolare, l’estate, da sempre rappresentativa dell’entusiasmo, della sospensione, del desiderio. La ricerca dell’altro si fa ricerca di sé stessi, della propria sessualità, della propria voce. Una voce tra le Le voci, come la canzone apripista dell’album. «Ma è stato il luglio più caldo della mia vita\ L’estate passa\ In fondo son contento sia finita», qui prende la rincorsa con un coro confuso, vibrante, dionisiaco, che rompe il silenzio illimitato dei pensieri più reconditi. «Di colpo era tornata l’estate, con la voglia di andare, di ridere, di far festa» l’estate pavesiana coincide con i moti del cuore di Ginia. I suoi turbamenti e le sue pulsioni seguono il ritmo del tempo che passa, un tempo ciclico e comunque mai veramente uguale a sé stesso. Invece, il mese della festa di Cosmo, subito dopo il febbraio carnevalesco di cui prima, è sempre uno invernale: Dicembre. Oltre ad essere una delle tracce più morbide e lente del disco, Dicembre è una lettera d’amore («Vorresti riempirti la bocca d’amore»), quasi un sigillo di cura e di protezione, una dedica rivolta alla sua compagna di vita affinché possa provare non tanto a sostituire ma quantomeno ad attenuare l’assenza paterna. Come controcanto, c’è l’altra ballata Regata ’70, in cui è il volto della madre di Cosmo a giustapporsi teneramente a quello della moglie e madre dei suoi due figli. Al di là di ogni lettura psicanalitica, quest’ultima figura si conferma essere il punctum di connessione concettuale dell’album, sia in forma di presenza che di vera e propria energia. In Impossibile si narra proprio l’incontro “magico” tra i due, un incontro sancito, sembrerebbe, quasi dalla volontà sconosciuta di un nume superiore. «Nulla è per caso\ Ogni gesto, ogni scelta, ogni piccolo dettaglio\ Nulla è per caso\ Dovevamo incontrarci a Torino in quel momento». Allo stesso modo non può essere un caso che Ginia incroci lo sguardo di Amelia e viceversa. Tra le due, apprendista sarta la prima e modella d’arte la seconda, nasce più di un’amicizia, una tensione fatta di carezze mancate e di sospiri trattenuti che, proprio nel momento culminante – un bacio negato seguito da una dichiarazione – è costretta a retrocedere e ad assopirsi. «Sono innamorata di te, - disse rauca -. Allora Ginia la guardò di scatto. – Ma non ti posso dare un bacio. Ho la sifilide». L’ambiente bohemien del secondo dopoguerra, fatto di pittori molleggianti, di fumo e assenzio, di soffitte e balere, in cui è calata la vicenda pavesiana non è del tutto dissimile a quello notturno e psichedelico dei rave odierni. Ciononostante, come è stato ribadito dallo stesso artista in più di un’occasione, i ragazzi dei rave non sono affatto dei criminali, sono dei festanti riuniti in assemblea, un’assemblea non ufficiale, meno dogmatica, sconsacrata, scomposta, in cui però la spiritualità non viene meno. Ed è questa sorta di vitalismo panico, questa riduzione dell’ego a favore dell’eco – sistema e sistemico – a cui si riferisce Cosmo in Cazzate. Suona chiaramente come un’invettiva contro il mondo capitalista, global e “plasticoso”, tra fake news, crisi climatica e conseguente greenwashing, la sua «L’Europa è un gigantesco luna park». Si sa, la domenica sera trascina con sé un immancabile sentimento di nostalgia, un torpore carico di agitazione in vista del lunedì prossimo. La verginità e l’innocenza di Ginia sono andate perdute, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta è avvenuto. La nudità dei corpi, quella che nel weekend è stata vista come una liberazione, torna ad essere peccato, onta, proibizione. Pure la tentazione è mutata ormai in rimpianto e il sacrificio si è fatto cifra di una coscienza colpevole di aver voluto assentarsi per un po’ dal suo schiacciante e sopravvalutato esercizio. Pertanto, la città per Pavese smette di essere l’assoluta antitesi della campagna; viene ad essere il suo prolungamento, compiendosi nella deriva dei valori ad opera della borghesia. Quella che è una ferita insanabile per lo scrittore di Santo Stefano Belbo, si rivela piuttosto cicatrice e cerniera per il musicista di Ivrea. Può la domenica per una volta essere vissuta nella trepidante attesa del giorno dopo? Se è Un lunedì di festa, eccome. L’anello si chiude. «Andiamo dove vuoi, - disse Ginia – conducimi tu», immaginiamo, perché no, rivolta a Cosmo, che magari le risponderebbe: «Una gita sul lago\ Pedalò e vino bianco\ A mille all'ora col suv\ In un sentiero di fango\ E dopo l'ora del tè\ Corriamo all'autolavaggio\ Il nostro amore ci aspetta\ Non c'è fretta\ Niente canzoni tristi\ È un lunedì di festa».
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