Oggi per me è un giorno di lutto ma anche di lotta; lo devo alle sorelle ammazzate e a tutte quelle ancora in vita. “Ma lotta per cosa? Non siamo mica negli anni 40, avete gli stessi diritti degli uomini” e ringrazio chi ha lottato e si è fatta uccidere per ottenere i diritti di cui godo io. Il diritto all’istruzione superiore e universitaria, 1874. Il diritto a disporre di beni personali e di iniziare un’attività commerciale senza il consenso del marito o del padre, 1919. Il diritto al voto, 1945. Il diritto a divorziare dal marito, 1970. Il diritto a non sposare il proprio stupratore, 1981. Eppure veniamo comunque uccise e molestate e violentate dai nostri compagni, mariti, padri, fratelli e non solo. E mi sembra superfluo dover sottolineare che il problema non sia giuridico, ma evidentemente è più facile nasconderlo dietro a questa dolce convinzione. Avere gli stessi diritti non è indice di parità. Anche se non siamo più negli anni quaranta, nel 2003 abbiamo dovuto rafforzare la legge che garantisce libero accesso a uomini e donne al pubblico impiego, però il tasso di disoccupazione femminile è, anche oggi, nettamente superiore a quello maschile. Nel 2006 il codice di pari opportunità ribadisce il divieto di discriminazione nell’accesso agli impieghi pubblici, ma migliaia di donne vengono ancora respinte ai colloqui di lavoro se hanno figli, se sono in gravidanza o se vogliono intraprenderne una. L’articolo 37 della costituzione stabilisce invece per la donna la stessa retribuzione economica che spetta all’uomo, ma secondo le statistiche Eurostat le donne guadagnano più del 10% in meno. “Non è vero! I salari sono gli stessi! Siete voi che lavorate meno”. In effetti il piano di uguaglianza di genere 2024-2026 dell’ISTAT ha evidenziato anche questo. Le donne infatti tendono a recarsi in ufficio più tardi e uscire di conseguenza più tardi, la ragione principale? La necessità di conciliare vita lavorativa e personale. D’altronde dalle statistiche si evince anche che siano in grande maggioranza le donne, rispetto agli uomini, ad adempiere anche a faccende domestiche o di cura; richiedono più permessi ROL o quelli previsti per la legge 104, così come congedi parentali. Abbiamo gli stessi diritti, eppure nel 2023 abbiamo avanzato una proposta di legge che riconoscesse la vulvodinia e la neuropatia del pudendo come malattie croniche e invalidanti quali sono. Però non sono inserite nei livelli essenziali di assistenza del Sistema Sanitario Nazionale, e chi ne soffre spende cifre esorbitanti per curare delle malattie che solo pochissimi medici sanno riconoscere e trattare. Non vengono inserite nei piani di studio delle facoltà di medicina e nelle scuole di specializzazione competenti, le spese delle cure sono totalmente a carico delle pazienti e, di conseguenza, non alla portata di tutte. Lo smart working dopo il 2020 ha concesso a moltissime donne di lavorare e di conciliare vita privata e professionale. Ma viviamo in una “cultura della presenza”, definita così da studi che dimostrano come una maggiore presenza sul posto di lavoro venga erroneamente considerata indicatore di successo professionale. Dunque abbiamo il telelavoro che ci agevola, ma anche una società che si basa su frivoli bias di facciata. Così la quota di donne in posizioni dirigenziali in Italia è circa del 24% (33% in Spagna e Svizzera, più del 40% in Svezia), in Europa il 7% delle aziende è guidata da un CEO donna, in Italia il 3%. Solo dopo 76 anni di storia della Repubblica una donna ricopre la più alta carica dello Stato: una donna madre e cristiana che se la prende con le femministe come fossero avversari politici e che tassa alimenti per neonati al 10% e pannolini al 22%. Ma la mia rabbia va ben oltre. Pur potendo votare, studiare, lavorare e avendo apparentemente gli stessi diritti di un uomo, leggiamo in media di un femminicidio ogni tre giorni. "Anche gli uomini vengono uccisi, non c'è motivo di creare una parola che includa solo le donne" dicono le stesse persone che fanno della legislatura, a quanto sembra, il loro unico punto di riferimento sul tema. Eppure nel 2013 abbiamo sentito il bisogno di emanare una legge che istituisse il "reato di omicidio volontario aggravato dal rapporto di parentela o convivenza con la vittima di sesso femminile" perché, ed è fattuale, la violenza domestica nei confronti degli uomini (ammesso che esista) non è statisticamente paragonabile a quella sulle donne. Legge rafforzata nel 2023. Non riusciamo più a contare le vittime di ragazzi, fidanzati, mariti, padri o fratelli bianchissimi e italianissimi, evidentemente nostalgici di una società che vedeva di loro proprietà le donne con cui avrebbero avuto questi tipi di legame. Il fatto è che non ci serve a un cazzo una legge che ci tuteli da morte. Vogliamo il riconoscimento unanime dell'esistenza di un problema sociale, di cui la giurisdizione è solo specchio o strumento. E mi fa incazzare da morire la continua focalizzazione su diritti di cui non frega mai un cazzo a nessuno a discapito della decostruzione, della formazione e dell'educazione. Mi fanno incazzare le generazioni di repressi ignoranti e rabbiosi che non sentendosi parte diretta del problema ne negano l'esistenza. "Anche gli uomini sono vittime di violenza, conosco più ragazzi in queste situazioni". Però nessuno fa mai nulla o parla per queste vittime di violenza, eccetto quando qualche donna parla per se. L' attaccamento ossessivo al singolo genere e alla giurisdizione ha fatto dimenticare quanto certe dinamiche, invece di sparire, si siano ramificate ammorbando anche contesti dove prima non arrivavano. La violenza fisica e psicologica della fidanzata possessiva nei confronti del partner non è un problema diverso: è lo stesso sistema, è la stessa violenza. Eppure siamo qui a farci la guerra tra sessi invece di lottare insieme per l'autodeterminazione dell'individuo, per l'idea che nessuna relazione interpersonale indichi o giustifichi in nessun modo l'esistenza di dinamiche di possesso, subordinazione o controllo. La mia rabbia non fa che bruciare. Brucia per tutto ciò che ho interiorizzato fin da bambina; i "comportati da signorina", "una femminuccia non parla così, non ride così, non beve così, non si siede così". "Vestiti bene, ma non così: così è pericoloso, lo senti al TG cosa succede"; "Esci adesso? Da sola? Di sera? Non importa se tuo fratello lo faceva, lui è maschio". Un continuo stare attenta e compiacere assimilato negli anni. Ora brucia. Brucia per le volte, da bambine, in cui ci veniva alzata la gonna, che alcune hanno smesso di indossare. Per le volte che ci è stato toccato il culo o il seno, fin da piccolissime. Brucia perché le volte che reagivamo, che reagiamo sentiamo "si ma non sai stare allo scherzo, sei una figa di legno, sei esagerata, fattela una risata, sembri pazza". Rabbia che brucia perché non va bene niente, non va bene reagire e non va bene sottomettersi, non va bene rivendicare la propria sessualità perché "non è così che si lotta per la parità", come se sul nostro corpo dovessimo, ancora, aspettare il loro parere. "Le donne qui stanno benissimo e fanno ciò che vogliono - e per fortuna, aggiungo io - però non sento mai le femministe parlare delle donne sottomesse nei paesi musulmani", forse perché non le ascolti, caro mio, forse perché in fondo non ci vuoi proprio ascoltare. La mia, la nostra rabbia però continua a bruciare, e brucia anche e ancor di più per loro: per tutte le donne vittime di regimi che non fanno che opprimerle, ucciderle, zittirle continuamente e che ci ricorda che il problema non è solo locale. Per questa rabbia oggi scendo in piazza assieme a Non Una Di Meno che (per la cronaca) quelle sorelle afghane, iraniane, palestinesi, dell’unità di protezione delle donne di Rojava le cita eccome. Se solo vi importasse davvero di quelle e delle nostre sorelle, se solo riuscissimo a cambiare la nostra di società, sarebbe più facile urlare insieme anche per loro.
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