Rocky Horror, come un flop diventa cult

Francesca Re

È il 26 settembre 1975 quando nelle sale americane esce Rocky Horror Picture Show, adattamento cinematografico diretto da Jim Sharman del sorprendente successo teatrale della Londra underground. 

Basta una settimana di programmazione per capire che il film è un clamoroso flop: le sale sono vuote, si staccano poche decine di biglietti per platee che possono ospitare fino a 600 persone; sui giornali e in tv la critica lo stronca senza pietà, tanto da definirlo «saggio di demenza cinematografica» infarcito di «numeri musicali tutt’altro che divertenti, che oscurano del tutto una vicenda di per sé piuttosto scarna». 

Una condanna senza appello. Ma, e questa è la magia del cinema, a un certo punto accade qualcosa di strano. Nelle poche sale dove viene ancora proiettato i gestori si accorgono che gli spettatori sono gli stessi della sera prima, e di quella precedente, e della precedente ancora. Ma non solo: gli stessi commentano ad alta voce le scene del film e cantano insieme agli attori. Così una sera, allo spettacolo di mezzanotte del cinema Playhouse di New York, il proprietario della sala decide di sedersi in platea tra il poco pubblico: alla scena del matrimonio si alza in pedi e lancia il riso sulle teste degli increduli spettatori, quando piove li bagna con le pistole ad acqua, e poi canta ad alta voce, punta in faccia agli spettatori la luce di una torcia, accende candele. L’esperimento ha funzionato, il pubblico s’è divertito e la sera dopo gli stessi che hanno assistito alla performance entrano in sala attrezzati di accessori, costumi, giornali, testi delle canzoni e dialoghi per diventare a loro volta parte attiva del film.

Si sparge la voce, le performance delle platee diventano sempre più, tanto che i distributori della 20th Century Fox capiscono che la chiave del successo va cercata fra gli spettatori. 

Rocky Horror si trasforma così in film notturno dove, grazie al fenomeno dell’audience participation, se il pubblico – o meglio, i transilvani come amano definirsi i fan - è sufficientemente motivato e fantasioso è come assistere a uno spettacolo diverso ogni sera. In platea si balla, si canta, tutto è lecito, anche arrivare a teatro con addosso biancheria sexy, calze a rete e tacchi alti. 

Oltre ad essere stato il primo ad aver contribuito ad abbattere la barriera tra schermo e platea, The Rocky Horror Picture Show è un film unico nel suo genere, un mix perfetto tra musical, fantascienza e b-movie, dove la cultura del Novecento si ritrova sballottata in un trionfo kitch. 

La vicenda narra di una coppia di giovani, Brad (Barry Bostwick) e Janet (Susan Sarandon) che, dopo aver assistito alla cerimonia di matrimonio di loro amici, vogliono sposarsi. Il primo da avvertire di questa loro decisione è il professor Everett Von Scott (Jonathan Adams), poiché Brad e Janet si sono conosciuti mentre frequentavano il suo corso universitario. Un problema all’auto su cui viaggiano e un forte temporale costringono i due giovani (dei nerd ante litteram) a cercare riparo e ospitalità in un antico castello. Ad attenderli, appena varcata la porta, c’è un gruppo di colorati ospiti guidati dal padrone di casa, il dottor Frank’N Furter (Tim Curry) del «pianeta Bisesso della galassia Transylvania», un personaggio che è via di mezzo tra la sensualità di Mick Jagger e la sessualità di Freddy Mercury, uno scienziato bizzarro (ispirato chiaramente al barone Victor Frankenstein) che, con indosso una giarrettiera, è intento a dare vita a Rocky, la sua creatura, un uomo biondo e atletico. Al suo fianco c’è il fido Riff Raff (Richard O’Brian), un maggiordomo gobbo, e Magenta (Patricia Quinn), cameriera ninfomane. Nelle stanze del castello, tra un balletto e l’altro, entrano in scena tra gli altri un Tarzan creato artificialmente; Columbia, una groupie di Frank’N Furter che alla fine si rivela essere innamorata di lui; Eddie, un motociclista tossicodipendente appassionato di rock (nel film interpretato dal cantante rock  Meat Loaf) e il dottor Von Scott, il quale spiega ai due timidi fidanzatini che l’allegra compagnia altro non è che un gruppo di extraterrestre sbarcato sulla Terra per studiare le abitudini sessuali degli umani. 

Rocky Horror arriva in Italia intorno alla fine del 1976 e riceve la stessa accoglienza americana: resta in cartellone poche settimane e viene ritirato. Poi, nel 1980, approda in una sala d’essai di Milano, il cinema Mexico, quella che con gli anni diventerà la sua casa italiana dove resta in programma per un paio di settimane e riscuote un discreto successo. Passano alcuni mesi e Antonio Scanassiano, gestore e proprietario del cinema, decide di riproporlo: risultato, la sala si riempie di più. Nel 1981 nella platea del Mexico si forma il primo cast di amatoriale per le audience partecipation, a guidarlo c’è Claudio Bisio. Il Mexico diventa una delle cinque Rocky Horror House del mondo e, fino a quando non ci si è messo di mezzo la pandemia, il film è stato proiettato un paio di volte al mese, sempre di venerdì alle 22, col biglietto a 6 euro. Ma non disperiamoci, perché «tornerà prossimamente» si legge su cinemamexico.it. E noi ce lo auguriamo di cuore. 

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